Molti frequentatori delle Alpi non lo sanno, ma la Sicilia è una terra di arrampicatori e alpinisti. Il migliore di loro, Roby Manfrè Scuderi, ci ha lasciato trent’anni fa, il 18 giugno 1994, cadendo durante una scalata senza corda sullo Schiavo, l’impressionante monolito che corona la muraglia calcarea del Monte Pellegrino, affacciata su Palermo.
“Spesso si ritrovava da solo. Questo suo modo di arrampicare era la routine, nessuno si preoccupava. Lo sapevamo, e nessuno si sognava di dirgli nulla”, ricorda Perla Manfrè Scuderi, sorella di Roby, di quella tragedia che ha segnato una generazione di alpinisti e di amici.
Nessuno vede Roby cadere, la sua bici ai piedi del Pellegrino indica che ha affrontato la parete. Poi lo trovano nella macchia, alla base delle rocce. “La Diretta allo Schiavo la faceva continuamente, partendo da casa in bicicletta, la conosceva come le sue tasche” continua Perla. “Mi sembra realistico credere che non abbia sbagliato, ma che gli sia rimasto un masso in mano inaspettatamente”.
Le parole di Perla Manfré Scuderi sono contenute in Roby Manfrè. Un marziano a Palermo, un bel libro appena pubblicato da Versante Sud, curato da Fabrizio Antonioli, Francesca Colesanti e Giuseppe Maurici, tre amici di Roby che hanno arrampicato a lungo con lui.
Alle loro parole – quella di Maurici è la “voce narrante”, che ripercorre le tappe della vita e dell’attività dell’amico – si affiancano quelle di una quindicina di arrampicatori e alpinisti, palermitani e non. I meno giovani si sono legati in cordata con lui, gli altri lo conoscono grazie alle sue vie, e alle reazioni che la parola “Roby” provoca ancora tra gli altri.
“Roby Manfrè sta alla Sicilia come Pierluigi Bini sta al Gran Sasso e come Marco Bernardi sta alla Sardegna. Non si tratta di difficoltà, quanto di mitologia. Tutte le vie aperte da questi arrampicatori hanno lasciato un segno indelebile nelle zone in cui si trovano, certamente per la difficoltà, ma probabilmente più per la logica e l’intuito che le hanno caratterizzate” spiega Maurizio Oviglia, uno dei più noti alpinisti italiani, nel suo intervento alla fine del libro.
“Roby, per un trentenne che emetteva i primi vagiti nel 1994, è più vivo che mai. Continua a esserci, nonostante siano passati decenni dalla sua scomparsa. È anche nostro, che sulle sue vie, ogni domenica, tentiamo – senza mai riuscirci – di emularne l’eleganza dei movimenti” aggiunge Riccardo Rubino, uno dei migliori climber palermitani di oggi.
Il racconto di “Un marziano a Palermo”, dopo un intervento in cui Maurici ricostruisce la storia dell’arrampicata in Sicilia, inizia con una galleria di foto di famiglia. A metterla insieme, e a commentarla un’immagine dopo l’altra, è Gabriele Manfrè Scuderi, il fratello di Roby.
“I nostri genitori non erano per nulla convenzionali, papà praticava l’arrampicata, la speleologia, lo sci di fondo e il paracadutismo, mamma pure” racconta Gabriele. Si vedono picnic in famiglia, camminate, gare di sci per ragazzi a Piano Battaglia, passaggi al confine tra escursionismo e alpinismo sui monti della Conca d’Oro.
Poi, un capitolo dopo l’altro, si dipana la storia di Roby. Alla fine degli anni Settanta, da ex-allievo dei corsi di roccia del CAI di Palermo, inizia ad aprire vie nuove in pantaloni alla zuava e scarponi. Poi, nei quindici anni successivi, si trasforma in un protagonista dell’arrampicata italiana.
“Negli anni ’70, a Palermo si forma quasi casualmente una generazione di giovanissimi scalatori che reinventa l’arrampicata in Sicilia, cercando le tracce del passato e, soprattutto, confrontandosi per la prima volta con il mondo esterno” racconta Giuseppe Maurici.
“Roby ha aperto in Sicilia oltre 300 vie nuove, dai monotiri, alle grandi salite su pareti che nulla hanno da invidiare alle Dolomiti. Alcune di queste vie hanno dovuto attendere anni prima che qualcuno osasse ripeterle, mantenendo inalterate le difficoltà da lui superate e l’aura di mistero che le ha ammantate per decenni” continua.
Tra tutte, oltre al Pellegrino, spiccano le pareti del Monte Monaco e di Monte Cofano, nel Trapanese. Pareti bellissime e grandi, e creste spesso infinite. “Nel 1989, al numero 59 del suo elenco segna: 27 marzo 1989 – Torre Welzenbach – Cresta del Menhir a Monte Cofano con Mauro e Giovanni” spiega Maurici, nel capitolo dedicato ai diari dove Roby annotava la sua attività.
“Se la Cresta Vistammare è una classica di media difficoltà, la successiva discesa in doppia all’intaglio con la parete principale, per poi salire la parete ovest della Spalla Rossa (180 m, V) e infine percorrere l’infinita Cresta del Menhir che conduce in cima al Monte Monaco, costituisce il più lungo concatenamento della Sicilia. Questo percorso di oltre 1600 metri complessivi di arrampicata continua, con difficoltà fino al V grado, è un’impresa di notevole rilevanza alpinistica” conclude Maurici.
Intanto, nei primi anni Ottanta, Roby, Giuseppe e i loro amici hanno affrontato per le prime volte il lungo viaggio verso le Alpi, a iniziare dal Monte Bianco. A cambiare l’arrampicata in Sicilia, però, è soprattutto il viaggio in senso inverso compiuto da Alessandro Gogna e da Fabrizio Antonioli, un romano che molti anni dopo andrà a vivere a Palermo.
“Quarant’anni fa, in una giornata gioiosa, calda e ventosissima, salivamo insieme sul Pilastro a Vela al Monte Cofano, una via bella e non impegnativa. Io avevo trentun anni, ventitré ne aveva Roby, ed eravamo spensierati, la vita era da vivere, la Sicilia ancora piena di pareti mai salite, profumate e piene di clessidre” racconta Antonioli.
“Negli anni successivi fu una condivisione totale: la discesa di Alessandro Gogna, lo Sballo di San Vito e il Canto del Gallo, al Circeo, la folgorante crescita di Roby come alpinista e arrampicatore di punta, le sue imprese”, con “centinaia di nuovi itinerari aperti in una Sicilia selvaggia, tra tutte Fata Morgana, Gioco d’Ombre, Ombra silenziosa, Ho sentito le Sirene Cantare, aperta in solitaria” prosegue Antonioli.
Roby Manfrè Scuderi diventa Istruttore Nazionale di Alpinismo e poi Istruttore di Arrampicata Libera (e viene esaminato da Simone Moro), poi entra nella Scuola Centrale di Alpinismo del CAI.
“Eravamo molto legati, lui era più bravo di me ma non lo faceva pesare, ci capivamo al volo, senza parlare, su tutto” continua Fabrizio. “Il suo stile di arrampicata, unico, elegante, mai di forza, era un esempio per tutti noi. Le sue vie nuove, geniali, la sua estrema sicurezza, la sua curiosità e grande apertura al mondo, i suoi espressivi silenzi, il suo sorriso”. Poi tace, come se la commozione avesse preso il sopravvento.
Oggi 18 dicembre “Roby Manfrè Scuderi. Un marziano a Palermo” viene presentato alle 18.30 presso lo Spazio Mediterraneo di Legambiente ai Cantieri della Zisa. Ci si deve registrare con una mail a larici53@gmail.com, organizza l’evento la Scuola di Alpinismo Costantino Bonomo del CAI di Palermo.
“Una volta, dopo un’arrampicata a Capo Zafferano con lui, Chiara e Isabella, siamo andati a fare il bagno a mare restando poi a guardare il tramonto con le gambe penzoloni sul muretto” ricorda nel libro Luigi Cutietta, compagno di cordata di Roby. “Era per questo che scalavamo, per essere felici”.
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