Reggio Emilia In (zona) stazione la puntualità è fondamentale. E puntuale come solo certe cose definitive sanno essere, dopo l’«operazione straordinaria di controllo del territorio definita ad alto impatto», arriva la notizia dell’ennesima brutale aggressione, proprio negli stessi luoghi dove soltanto un giorno fa il cane Viktor veniva chiamato agli ultimi straordinari prima della meritata pensione e decine di agenti scendevano in campo a controllare il quartiere più caldo della città, quel dedalo di strade che s’intrecciano attorno a piazzale Marconi dove sorge la vecchia stazione. I fatti risalgono alla sera di sabato scorso e si svolgono tra il piazzale della stazione, l’androne di un condominio di via Eritrea.
Un ragazzo di 21 anni è stato prima accerchiato tra quattro persone, poi spinto all’interno di un portone dove, sotto la minaccia di un cacciavite puntato alla gola ha dovuto consegnare tutto quello che aveva con sè: un iPhone di ultima generazione, la carta di credito, 40 euro in contanti e una catenina d’argento che aveva al collo. Nicholas ha 21 anni, tre anni fa ha raggiunto la sorella Giada a Reggio Emilia dalla Puglia. Nicholas ha trovato lavoro in una azienda metalmeccanica come operaio e assieme ad altri due ragazzi divide le spese di un appartamento nella prima periferia della città. La sorella vive assieme al compagno in un’altra zona della città, è impiegata in un call center e così si mantiene gli studi per conseguire la laurea magistrale in criminologia. Il gancio e l’agguato I fatti risalgono alla sera di sabato scorso. Sono da poco passate le 21 e Nicholas ha appena finito di cenare.
A raccontare quel che è accaduto è la sorella: «Nicholas – spiegava ieri Giada al telefono con la Gazzetta – è ancora turbato da quel che ha vissuto: da due notti dorme a casa mia, si sveglia in preda agli incubi, vi ringrazia, vuole che se ne parli, ma non ce la fa a rivivere di nuovo tutto: in questi giorni ha raccontato decine di volte quel che ha dovuto subire: agli agenti, a me, ai medici del pronto soccorso e a uno psicologo con cui ha potuto parlare dopo che una ambulanza lo aveva portato, in uno stato di grande agitazione all’ospedale». Così, tocca a Giada ripercorrere la drammatica serata passata da suo fratello. «Nessuno di noi due – premette Giada – frequenta quella zona, se non per prendere un treno. Nicholas, però ha una passione per i panini del Chicken Taste che è proprio in piazzale Marconi. Sabato era da solo e ha deciso che avrebbe cenato lì. Aveva parcheggiato in una laterale di via Eritrea e, uscito dal locale, stava tornando alla macchina quando quattro ragazzi, due poco più grandi di lui gli si sono affiancati, cominciando ad andare al suo passo. Subito – dice Giada – gli hanno chiesto se sapesse l’ora, avevano tutti i tratti e l’accento nordafricani. Mio fratello ha mostrato l’orologio che aveva al polso ma solo per dire loro che non lo sapeva, dal momento che l’orologio era guasto». Tutto inutile, i quattro avevano un altro obiettivo: il telefono cellulare, l’iPhone 16 che Nicholas teneva in tasca. «Prima di passare all’azione – prosegue il racconto di Giada, uno dei quattro ha chiesto a mio fratello di seguirlo su Istagram, pensando forse che a quel punto Nicholas avrebbe estratto dalla tasca il cellulare». Ma il ventunenne voleva soltanto raggiungere in fretta la propria auto e a quel punto il branco è passato dalle parole ai fatti. «L’hanno prima accerchiato – racconta la sorella – e poi spinto dentro l’androne del civico 6 di via Eritrea, aiutati dal fatto che uno dei quattro aggressori aveva le chiavi del portone. A quel punto, puntando un cacciavite alla gola, hanno intimato a Nicholas di consegnar loro tutto quello che aveva: l’orologio rotto, l’iPhone 16, una carta di credito, 40 euro in contanti e una catenina d’argento con un Crocifisso. Mio fratello è stato lucido nel non cercare di opporre resistenza, ottenendo così che lo lasciassero andare».
La richiesta d’aiuto
A quel punto, Nicholas si mette a cercare aiuto: la questura non dista molto, ma per prima cosa vorrebbe che arrivasse una volante lì, magari per mettere le mani sui rapinatori. Almeno su quello che ha visto bene in faccia. Ma per chiamare la polizia serve un telefono. Che lui non ha più. E quando chiede a quelli che incontra di poter chiamare la polizia, la risposta è sempre la stessa: «No… la polizia no…». «Alla fine quando è ormai arrivato in questura entra in un locale dove si mangia kebab e da lì riesce a chiamare. Ma è sotto shock e l’unico numero che si ricorda a memoria è quello di sua nonna che ha 86 anni e sta in Puglia». La nonna però è sveglia e – su indicazione di Nicholas avverte Giada che in pochi minuti raggiunge il fratello in questura. Nicholas sta male, inizia a vomitare e attira così l’attenzione degli agenti che prima raccolgono la sua testimonianza. Nicholas descrive con dovizia di particolari: Giubbotto bomber nero, con cappuccio, marchiato North Face, capelli ricci che si scorgevano da sotto al cappuccio, barbetta nera corta sui lati e più lunga sotto il mento. Età massima 30 anni, gli altri gli sembravano anche più piccoli. Nicholas continua a stare male e dalla questura chiamano un’ambulanza che porta il ragazzo al pronto soccorso del Santa Maria Nuova: per lui, alla fine, oltre a un colloquio con lo psicologo, una prognosi di quattro giorni. «Lunedì – conclude Giada – siamo tornati in questura per la denuncia, anche se non lo nego, siamo piuttosto scoraggiati». Lo scoramento di Giada è anche un po’ il nostro, non foss’altro per il fatto che da mesi il sindaco di Reggio chiede un presidio dell’esercito in zona e finora non è arrivata alcuna risposta a questa richiesta. Lo scoramento genera domande a cui noi non sappiamo dare una risposta. «Perché – chiede Giada in una accorata lettera inviata alla Gazzetta – gli agenti non sono andati subito sul luogo dell’aggressione? Perché quando mio fratello ha detto che era stato aggredito in via Eritrea gli agenti gli hanno chiesto che cosa ci facesse lì? Come dobbiamo interpretare una domanda del genere? Io ho scelto sette anni fa di vivere in questa città ma sicuramente non potrei vivere in quella zona».l © RIPRODUZIONE RISERVATA
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