Il 2025 si è aperto sul fronte economico con molte nubi che rendono complicato vedere anche solo con un minimo di chiarezza l’orizzonte. Tra tali nubi le più nere vi sono indubbiamente le minacce di Trump di imporre dazi e i rischi di un ulteriore avvitamento dei protezionismi, la persistente debole domanda interna cinese, le difficoltà della Francia nel chiudere un bilancio programmatico per il 2025 con i rischi di una ulteriore crisi di governo, la paralisi strategica dell’Unione Europea, le incognite sugli sviluppi della guerra russo-ucraina e le nuove tensioni sui prezzi dell’energia.
Tuttavia, quattro cose sono già piuttosto chiare riguardo allo scenario di chiusura del 2024 e di inizio 2025, specie per quanto riguarda l’Italia e l’Europa. La prima è che la crisi dell’economia tedesca, dopo il disastroso biennio 2023-2024, rischia di proseguire anche quest’anno. La seconda è che il PIL italiano tiene e forse potrebbe riservare delle sorprese positive se non addirittura delle revisioni al rialzo (ne abbiamo già viste diverse negli ultimi tempi). La terza è che l’industria italiana e il nostro export soffrono per cause esterne ma resistono in uno scenario europeo estremamente avverso. La quarta è che il debito pubblico italiano è sotto controllo ed attira sempre di più gli investitori internazionali delusi da altri debiti sovrani oggi nell’occhio del ciclone (vedi Francia e Regno Unito).
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Il PIL tedesco è diminuito nel 2024 dello 0,2%. Si tratta del secondo calo annuale consecutivo, dopo il -0,3% del 2023. L’economia della Germania, dunque, è in coma profondo e il suo ex modello vincente è stato spazzato via come da uno tsunami dalla fine dell’energia a basso prezzo garantita dal gas di Putin e dalla trasformazione letale della Cina da mercato dorato a concorrente agguerrito. Non solo. La crisi tedesca ha messo in ginocchio anche i suoi Paesi satelliti e gran parte del Nord Europa, paralizzando altresì gli scambi commerciali intracomunitari. Destatis (l’Istat tedesco) ci fornisce i crudi dettagli della prolungata recessione della Germania. Dal lato della domanda, nel 2023 i consumi delle famiglie tedesche sono cresciuti poco (+0,3%) dopo il calo del 2023 (-0,4%), gli investimenti sono diminuiti del 2,8% e l’export è arretrato per il secondo anno consecutivo (-0,8% nel 2024, -0,3% nel 2023). Dal lato della produzione, quella industriale manifatturiera è crollata del 3%.
Se le elezioni tedesche non partoriranno una maggioranza solida e capace di scongelare i vincoli costituzionali di spesa pubblica che attualmente impediscono di sviluppare una efficace politica economica, la Germania resterà in coma. Non solo: una Germania debole e frastornata impedirà alla stessa Commissione Von der Leyen di avere la forza necessaria per prendere decisioni chiave per rilanciare la competitività del continente con una strategia chiara, impostata su una revisione almeno parziale dei fallimentari dossier Green Deal e auto elettrica e su risposte adeguate alla concorrenza cinese e alle minacce americane di dazi.
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Nonostante questo deprimente scenario tedesco ed europeo, che penalizza notevolmente l’industria italiana e il suo export, il PIL del nostro Paese nei primi nove mesi è risultato in crescita dello 0,7% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (in base ai dati trimestrali grezzi). L’economia italiana “tiene” grazie ai servizi e l’occupazione aumenta, con un tasso di disoccupazione sceso ai minimi storici e una sensibile ripresa del potere d’acquisto delle famiglie. Negli ultimi anni la nostra economia ha visto molti cambiamenti strutturali, specie nel settore dei servizi, il cui output, come già ci spiegava decenni fa un grande economista come Giorgio Fuà, è difficile da misurare con esattezza, specie quando il sistema produttivo vive profonde trasformazioni. Le differenti dinamiche degli ultimi due anni tra crescita del PIL reale, occupati e ore lavorate potrebbero anche dare luogo ad ulteriori revisioni del PIL (dopo quelle già ripetutamente operate dall’Istat).
Per intanto, vediamo come chiuderà l’economia italiana nel quarto trimestre, lo sapremo a fine mese. Le previsioni sono discordanti. Prometeia prevede una crescita zero, mentre la Commissione Europea vede possibile un +0,3%. Comunque vada a finire, i critici dell’economia italiana, sempre pronti ad ammirare la crescita degli altri Paesi, sembrano non aver capito che, senza l’aiuto dell’aumento della popolazione e del debito pubblico, molti di tali Paesi oggi sarebbero pressoché fermi. Lo dimostra la dinamica del PIL pro capite, secondo i dati consuntivi e previsionali della Commissione europea nel periodo temporale 2017-2026, con l’Italia a +13,6% in dieci anni rispetto al 2016, seconda nel G-7 solo agli Stati Uniti (+19,9%) e davanti anche alla Spagna (+11,6%), sempre presa da molti come modello. Con il Giappone e la Francia dietro a +8,4% e +8,1%, Il Regno Unito a +5,6% e la Germania ferma a +3,9%. Numeri che smentiscono il mainstream e lo stereotipo di un’Italia eternamente ultima.
L’industria manifatturiera italiana, pur soffrendo, rimane saldamente la seconda d’Europa (nonostante alcuni commentatori in queste ore lo abbiano messo in dubbio, sostenendo che le “nuove potenze” sarebbero Spagna e Polonia). Anzi. Fatta 100 l’industria tedesca, confrontando il periodo gennaio-settembre 2019 pre-Covid con il gennaio settembre 2024, il valore aggiunto manifatturiero italiano è salito da 38,5 a 41,3. La nostra industria, considerando gli ultimi 12 mesi disponibili (dal 4 trimestre 2023 al terzo trimestre 2024), in termini di valore aggiunto manifatturiero risulta attualmente più grande di 46 miliardi di euro di quella francese, di 151 miliardi di quella spagnola (cioè quasi del doppio) e di 197 miliardi di quella polacca (cioè di oltre 2 volte e mezza), con buona pace delle “nuove potenze”. Nei primi sei mesi del 2024, inoltre, il nostro export ha superato per la prima volta nella storia contemporanea quello del Giappone, diventando il quarto al mondo. Confindustria fa bene a chiedere al governo un maggiore sforzo in termini di politica industriale. Ma non perché siamo deboli, cioè la solita lagna del mainstream, bensì per difendere nel 2025 e nei prossimi anni i successi e le quote di mercato conseguiti nell’ultimo decennio, dopo grandi sacrifici e investimenti da parte delle imprese, anche grazie al contributo fiscale di Industria 4.0, che non va sprecato. Le crisi dei debiti pubblici di Francia e Regno Unito delle ultime settimane hanno fatto capire che l’Italia, in questo momento, ha un debito assai più solido e meglio gestito di quanto molti pensassero.
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A novembre 2024, è vero, il nostro debito pubblico ha superato la soglia simbolica dei 3.000 miliardi, toccando i 3.005 miliardi (peraltro, la Francia a fine settembre 2024 era già a 3.303 miliardi, mentre il Regno Unito, secondo la Commissione europea, a fine 2024 arriverà a 3.384 miliardi). Ma, come ha spiegato la Banca d’Italia, ciò che importa non è il valore assoluto del debito bensì la sua sostenibilità. Quest’ultima normalmente viene misurata in rapporto al PIL, anche se, a nostro avviso, questo parametro non è affatto esauriente e talora fuorviante, per cui andrebbe affiancato anche da altri indicatori. Comunque, un esempio può essere utile. Se prendiamo gli ultimi dieci anni, dal 2014 al 2023, il debito italiano è aumentato di 665 miliardi di euro, quello francese di 1.031 e quello britannico di 1.048 miliardi. Rispetto al 2014, tuttavia, nel 2023 il nostro rapporto debito/PIL è rimasto praticamente invariato, (passando dal 134,7% al 134,8%), mentre quello britannico è cresciuto di 12,9 punti percentuali (dall’87,1% al 100%) e quello francese di 13,8 punti (dal 96,1% al 109,9%).
L’Italia ha dimostrato dunque di saper tenere in ordine i propri conti, anche durante la pandemia. I mercati lo hanno capito e gli investitori internazionali sono tornati ad acquistare con fiducia i nostri titoli di Stato (incrementando la quota in loro possesso di ben 108,7 miliardi di euro tra gennaio e ottobre del 2024), senza peraltro sbilanciare troppo il debito italiano sull’estero (la percentuale del nostro debito pubblico detenuta da investitori non residenti a ottobre del 2024 era appena del 31%, contro una quota della Francia molto più alta, pari al 52% a fine 2023). E ad inizio 2025 la domanda di nostri titoli di Stato è proseguita, con un grande successo degli ultimi collocamenti che fa ben sperare anche per i prossimi mesi.
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