Le mille vite di un bosco

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Di: red. giardino di Albert/Davide Conconi 

Gli incendi californiani che tanto ci hanno impressionato – e che continuano a preoccuparci perché proprio in questi giorni stanno riprendendo vigore – sono solo una delle tante devastazioni che impattano foreste e boschi, spesso azzerandone vaste porzioni.  Tempeste – quella di Eowyn che ha colpito le isole britanniche ne è un esempio attuale eccezionale – , inondazioni, frane e valanghe sono alcune delle altre manifestazioni estreme che colpiscono il manto forestale annientandolo anche su grandi superfici. Queste calamità suscitano tante emozioni perché spesso vi sono associate ingenti perdite economiche e addirittura di vite umane, eppure sono perfettamente normali dal punto di vista della natura. Incendi e inondazioni nel bosco, solo per citarne alcune, hanno un ruolo ecologico ben preciso: l’abbattimento massivo della biomassa costituita dal legname immagazzinato negli anni dalle piante. L’evento catastrofico, sgombera superficie utile, pronta per essere nuovamente colonizzata e rimette in circolo il carbonio e gli elementi minerali nutritivi. Una disponibilità che si manifesta improvvisamente e in modo massiccio che stimola immediatamente la ricrescita della vegetazione. Costituisce anche un formidabile motore per la biodiversità: una volta che la catastrofe ha liberato il suolo dal bosco e riportato la luce sulla sua superficie, si instaura una successione di vegetali e animali che porteranno dopo molti decenni a ritrovare una foresta simile, almeno nella sua struttura, a quella andata perduta. Senza contare che gli alberi abbattuti dalla furia degli eventi e che rimangono al suolo, costituiscono un habitat prezioso per funghi e animali specializzati nello sfruttamento di questa risorsa.  

Lothar, la tempesta invernale che 25 anni fa si abbatté a nord delle Alpi, soprattutto sull’Altopiano svizzero, ebbe proporzioni epocali. Come lo ricorda un documento del WSL, l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio, l’uragano ha abbattuto in poche ore in Svizzera 14 milioni di metri cubi di legno, l’equivalente di quasi il triplo di quanto viene tagliato ogni anno in Svizzera. Se tutta la legna fosse stata asportata, sarebbero stati necessari 350’000 autotreni. Ma, la catastrofe si rivelò un mega-favoloso laboratorio a cielo aperto per poter studiare scientificamente tutta la cascata di eventi che seguono la distruzione su vasta scala di un bosco. Molti furono i monitoraggi e i test scientifici intrapresi che permisero anche di analizzare i fattori che concorsero o interferirono nella rigenerazione dei boschi, come l’aumento delle temperature e della frequenza dei periodi siccitosi, le successive ondate di insetti parassiti e l’arrivo degli organismi alloctoni invasivi. Una vera manna per i ricercatori come Marco Conedera, ricercatore senior e responsabile dell’Unità Ecologia delle comunità e Ecosistemi insubrici, attivo nella sede di Cadenazzo del WSL.

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Marco Conedera ci ricorda come noi approfittiamo del bosco per le sue importantissime funzioni: il bosco ci protegge dalla caduta sassi, ci può procurare cibo, ci fornisce materiale da costruzione e infine ci dispensa momenti di svago, frescura e relax. Per poter approfittare di tutti questi servizi ecologici, però è necessario attendere che il bosco si sviluppi in un ecosistema stabile e maturo e per questo ci vuole tempo, a volte molto tempo. Per questa ragione, gli studi e i monitoraggi che il WSL ha condotto negli anni e continua portare avanti a seguito di Lothar e altre catastrofi sono molto preziosi per capire i tempi della rigenerazione dei boschi. Permettono di delineare le modalità e le specie che questo meccanismo coinvolge, a seconda se ci troviamo in montagna o in pianura, su di un versante solatio o su un pendio all’ombra. Gli studi condotti, inoltre permettono di valutare le modalità di intervento dell’uomo, per accelerare i processi di rigenerazione o per orientarne il risultato, segnatamente a livello della composizione di specie vegetali. Permettono anche di capire quando è meglio lasciar fare solo alla natura…

Lothar nel 1999 rasò in Svizzera intere foreste di abete rosso situate in pianura. Si trattava di superfici piantate dall’uomo, che non hanno resistito alla forza del vento. Non erano popolazioni naturali, ma tentativi da parte dell’uomo di massimizzare la resa economica, visto che l’abete rosso ha un grande interesse per il mercato, grazie alla sua versatilità come legno da opera. Valutando la situazione si decise, dopo la tempesta, di lasciar crescere gli alberi naturalmente, Oggi il risultato è che si sono installate delle belle foreste di latifoglie molto diversificate là dove un tempo c’erano solo delle monocolture di abete rosso. E per fortuna! Perché, come ci rammenta Marco Conedera, l’abete rosso è una pianta un po’ particolare con un apparato radicale piuttosto superficiale e dunque molto sensibile ai lunghi periodi di siccità. Perciò, le nuove foreste di latifoglie, con radici piantate profondamente nel suolo, resisteranno molto meglio ai cambiamenti climatici e allo sradicamento in caso di uragani.

Le foreste dell’Altopiano svizzero si sono rigenerate abbastanza rapidamente, grazie a piante madri già presenti che hanno abbondantemente seminato il suolo sgomberato dagli abeti. Ma, non va sempre così! In Vallese dove nel 2003 un poderoso incendio distrusse la vegetazione su una superficie di 450 ettari sulle alture di Leuk, oggi la vegetazione arborea fatica a riprendere terreno a causa dell’altitudine, delle scarse precipitazioni e del terreno sottile. Anche in questo caso, però, Peter Oggier, direttore del parco naturale regionale di Finges in Vallese, ci ricorda che se da una parte, la popolazione, visse quell’evento come una terribile tragedia, dall’altra parte, per la natura, fu un evento positivo e oggi si assiste a un’esplosione di biodiversità, con specie anche piuttosto rare che si stabiliscono nei nuovi habitat creati dall’incendio. Alla fine ci viene da pensare che per valutare le conseguenze di questi grandi eventi, spesso conviene allontanarsi un po’ dalla nostra visione e abbracciare quella dell’ecosistema nel suo insieme.



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