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Uno stanziamento di 250 milioni per le imprese della moda, destinati a contratti di sviluppo e alla transizione ecologica, e la promessa di trovare una soluzione all’impasse del credito d’imposta sulla ricerca, rimasti “bloccati” da un cambio di normativa. Il Tavolo permanente sulla moda istituito due anni fa dal Mimit si è riunito ieri. All’ordine del giorno le proposte del governo e le richieste delle associazioni di categoria e dei sindacati. Per il settore, da sempre eccellenza del made in Italy e pilastro dell’economia, si tratta di un periodo buio. Nel 2024 il fatturato è sceso a 95,6 miliardi con un calo del 5,3% secondo il report della Camera Nazionale della Moda. Negli ultimi cinque anni, come ha spiegato ieri la vicepresidente della Federazione Moda Confcommercio Marisa Tiberi sono andati in fumo 20mila negozi e oltre 15mila posti di lavoro con una contrazione del 10% dei consumi familiari.

La spending review forzata imposta dal caro-vita ha messo in crisi marchi storici e alcuni dei colossi del retail made in Italy sempre più “stretto” dall’avanzata delle catene straniere come Inditex (Zara e company), Primark, Uniqlo e da ultimo la polacca Reserved. Ad essere penalizzati non solo i brand del lusso, per il calo delle esportazioni, ma anche quelli più popolari. Sono in dirittura d’arrivo alcune vertenze aperte da anni a partire da quella La Perla. Lo storico marchio di lingerie fondato nel 1954 da ieri è sul mercato: il Mimit ha ufficializzato l’apertura della procedura di vendita unitaria degli asset, compresi marchio e stabilimento produttivo bolognese. Si tratta del primo caso di liquidazione giudiziale transfrontaliera dalla Brexit (il marchio è di proprietà di una Holding inglese). Ad essere interessato all’acquisto un grande gruppo del retail, Oniverse, cioè l’ex Calzedonia di Sandro Veronesi che ha in pancia Intimissimi, Tezenis, Falconieri ma anche marchi del food come Signorvino. La proposta del patron di Calzedonia, che si era già mosso per La Perla due volte in passato, non sarebbe l’unica ma la più convincente. Negli ultimi cinque anni il personale è stato ridotto ad un terzo: le “perline” (nome adottato dalle lavoratrici di Bologna che realizzano i capi in maniera artigianale) oggi sono solo 230 e continuano la loro battaglia tra cassaintegrazione, stipendi non versati e stabilimento chiuso per mesi.

Come per il settore della ristorazione, sempre più dominata dalle catene, si va verso una concentrazione dei brand nelle mani di pochi operatori. «In Italia il commercio è polverizzato e lo sviluppo di catene che consentono economie di scala e quindi prezzi accessibili ma anche iniziative di marketing efficaci è in forte ritardo – spiega Mario Resca presidente di Confimprese – per questo siamo stati per certi versi “colonizzati” dagli stranieri che sono arrivati in massa dagli spagnoli, ai giapponesi». A fare la parte del leone Ovs nato come una “costola” del più prestigioso Coin, negli anni ’70 vendeva i prodotti di “seconda scelta”, nel 2014 si è messo in proprio ed è il principale operatore mercato con un fatturato di oltre 1,5 miliardi e una rete di 1200 negozi. Punta ad acquisire la sua ex casa madre, dopo un tentativo sfumato nel 2022. Ma potrebbe trasformarsi nel cavaliere bianco, in tandem con Unigross, in grado di salvare Conbipel dal fallimento. Opzione che l’ad Stefano Beraldo non ha escluso dopo aver messo a segno l’ultima mossa su Golden Point (dopo quelle di Upim, Stefanel e l’interesse per Coin) ma ancora tutta da verificare.

Lo storico marchio piemontese, fondato nel 1958 a Cocconato d’Asti è nelle mani dei fondi stranieri dal 2007, ha oltre mille dipendenti e 130 negozi. Ha ormai perso la sua identità passando dalla vendita di capi di pelle di alta qualità alla produzione del tessile. L’anno scorso è stato venduto alla londinese Eapparelis controllata da un fondo di Singapore:un ennesimo buco nell’acqua che si è tradotto nella composizione negoziata con la ricerca di nuovi investitori. Accanto ad Ovs in pista c’è Unigross, azienda pescarese specializzata in tessile per la casa, intimo e abbigliamento sportivo che si è fatta avanti ufficialmente. Si è incanalato sul terreno scivoloso della composizione negoziata la scorsa estate anche il gruppo veneto Coin con i sindacati preoccupati per la mancanza di garanzie sulla sostenibilità aziendale e la continuità occupazionale dei circa 1.300 dipendenti. Il tavolo di confronto aperto al Mimit si riunirà il prossimo 4 febbraio. Quest’anno chiuderanno i battenti otto punti vendita. La crisi ha avuto origine ben prima della pandemia, ma gli anni del Covid hanno aggravato la situazione finanziaria dell’azienda, portando a un debito di circa 80 milioni di euro.
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