Nella splendida cornice dell’Aula Paolo VI, nell’ambito del Giubileo della Comunicazione, si è svolto l’incontro culturale “in dialogo con Maria Ressa e Colum McCann”, alla presenza di Maria Ressa, giornalista filippina naturalizzata statunitense e Premio Nobel per la Pace nel 2021, e Colum McCann, scrittore irlandese di fama internazionale. A moderare la conversazione è stato Mario Calabresi, giornalista e scrittore, già direttore de La Stampa e La Repubblica. L’evento è stato introdotto da Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la Comunicazione.
“Si può ancora comunicare con speranza?”, da questa domanda è partito l’intervento di Mario Calabresi che ha detto: “La narrazione del male non può essere l’unica perché anche dentro il male si possono vedere momenti di bene. Ma sembra che siamo diventati incapaci di coglierli. Quegli esempi di bene sono appigli che ci servono per non cadere nel baratro, il mondo non è così nero e spaventoso, c’è chi si cura, chi cerca la verità, dobbiamo sposare il loro punto di vista perché ci può essere salvezza, ci vuole responsabilità nel non cavalcare il male. Un’informazione che racconta solo il male distrugge la società”.
A seguire è stata la volta di Maria Ressa, arrestata e condannata con vari capi di imputazione, tra i quali la diffamazione, per aver raccontato in modo critico attraverso il sito giornalistico Rappler l’operato del presidente Duterte. La giornalista ha portato un’interessante riflessione sulla violenza sui social ma anche sulla libertà di espressione.
“Stiamo vivendo una profonda trasformazione del nostro mondo. L’ultima volta che è successo qualcosa di simile quando le nuove tecnologie hanno permesso l’ascesa del fascismo, è stata 80 anni fa. È stata all’incirca l’ultima volta che un giornalista è stato Nobel per la pace, ma Carl von Ossietzky non poté accettarlo perché stava languendo in una prigione nazista. Da molti anni ormai lancio l’allarme: come a Hiroshima, una bomba atomica è esplosa nel nostro ecosistema informativo. Per inseguire il potere e il denaro, la tecnologia ha permesso un’insidiosa manipolazione a livello cellulare di una democrazia: di noi, gli elettori, microtargettizzando paura, rabbia e odio; seminando metanarrazioni che hanno distrutto la fiducia. Ha creato quella che il chirurgo generale degli Stati Uniti ha definito un’epidemia di solitudine, mettendo il vicino contro il vicino e premiando la mafia, premiando il peggio di ciò che siamo come persone. I giornalisti sono stati i primi ad essere attaccati: se volete il potere, demolite la nostra credibilità. Lo so bene perché il mio governo mi ha bersagliato con una media di 90 messaggi di odio all’ora. Come il fertilizzante, #ArrestMariaRessa ha fatto tendenza sui social media due anni prima che venissi effettivamente arrestata. Ciò che sembra impossibile, con la ripetizione diventa possibile. Sono stata arrestata e ho pagato la prima cauzione il giorno di San Valentino del 2019. In poco più di un anno, il mio governo ha presentato 10 mandati di arresto contro di me. Non sapevo cosa sarebbe successo, ma io e Rappler abbiamo fatto ciò che era giusto. E ora, quasi dieci anni dopo, le 10 accuse penali sono scese a due. Ma fino ad oggi, solo per aver fatto il mio lavoro di giornalista, ho perso un po’ di libertà: devo chiedere alla Corte Suprema del PH l’autorizzazione a viaggiare. La parte triste? Sta accadendo più rapidamente in altre parti del mondo. Questo Giubileo arriva in un momento in cui il mondo è sottosopra: quando ciò che è giusto è sbagliato e ciò che è sbagliato è giusto. Ricordo un vecchio cartone animato quando stavo crescendo e stavo imparando a prendere decisioni di coscienza. Alla tua destra c’è il diavolo che ti incita: “Fallo. Fallo. Fallo!” Alla tua sinistra, c’è un angelo che vi ricorda la regola d’oro: “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”. Vi dice di non essere egoisti. Di condividere. Di combattere i vostri istinti peggiori. Ebbene, i social media hanno tolto l’angelo dalla vostra spalla, hanno fatto crescere il diavolo e lo hanno collegato direttamente al vostro sistema nervoso. Le Big Tech hanno trasformato i social media da strumento di connessione in un’arma di ingegneria comportamentale di massa. Queste piattaforme non sono tecnologie neutre, ma sistemi sofisticati progettati per sfruttare le nostre vulnerabilità psicologiche più profonde. Monetizzano la nostra indignazione e il nostro odio, amplificano le nostre divisioni ed erodono sistematicamente la nostra capacità di pensiero sfumato e di empatia. Poiché siamo in Vaticano, voglio sottolineare tre cose: 1. La tecnologia premia la menzogna. Come ho detto a Papa Francesco, questo è contrario ai 10 Comandamenti; 2. Gli uomini che controllano questa tecnologia trasformativa esercitano un potere simile a quello di Dio, ma non sono Dio. Sono solo uomini, la cui arroganza, mancanza di saggezza e umiltà sta portando il mondo su un sentiero oscuro. 3. Sempre più spesso, secondo le loro stesse definizioni e parole, il loro potere incontrollato e irreprensibile assomiglia a una setta.
Ecco perché la religione, la fede, diventa oggi più importante. In HOW TO STAND UP TO A DICTATOR, scrivo di come la regola d’oro – “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te” – mi abbia guidato per tutta la vita. Mi ha aiutato a definire il CORAGGIO in un mondo sempre più plasmato dalla menzogna: il coraggio di parlare quando il silenzio è più sicuro; il coraggio di costruire ponti quando i muri sembrano più facili; il coraggio di sostenere la verità anche quando sembra che il mondo intero sia contro di te. Mi piace la parola sudafricana UBUNTU – “Io sono perché noi siamo” – un antidoto a molti dei nostri problemi odierni. È una verità universale che le nostre comunità di fede incarnano. Il dolore di uno è il dolore di tutti. Quando Big Tech premia il peggio di ciò che siamo, UBUNTU ci insegna che i nostri destini sono interconnessi; che la lotta per la verità, la giustizia e la pace non è una battaglia di qualcun altro, ma è la nostra.
La violenza online è violenza nel mondo reale. E le due cose si alimentano a vicenda. Dal Myanmar all’Ucraina, a Gaza, al Sudan, allo Zimbabwe, all’Afghanistan, all’Etiopia e a molti altri campi di battaglia dimenticati. Queste guerre non si combattono solo con missili e carri armati, ma anche con algoritmi, disinformazione e distruzione sistematica della verità e delle nostre comunità di fiducia. La guerra dell’informazione, il gioco di potere geopolitico, sta sfruttando il design di queste piattaforme. Ricordate, l’obiettivo non è farvi credere a una cosa, ma farvi dubitare di tutto per paralizzarvi. A livello globale, ci sono due principali linee di frattura della società aperte, indipendentemente dal Paese o dalla cultura. Sono il genere e la razza, e gli attacchi sono spesso alimentati dalla religione. Il sessismo che si trasforma in misoginia e il razzismo che trova la sua strada nelle costituzioni come quella ungherese, dove si chiama teoria della sostituzione dei bianchi. Nei telegiornali si parla di immigrazione o di inflazione, ma se si scava più a fondo si scopre il genere e la razza. Dobbiamo costruire uno stack tecnologico pubblico per il mondo virtuale, dove le persone reali possano avere conversazioni reali senza essere manipolate per il potere e il denaro. Noi di Rappler abbiamo iniziato a costruirlo e abbiamo lanciato un’app di chat con protocollo a matrice poco più di un anno fa. La nostra visione è quella di una federazione di organizzazioni giornalistiche globali”.
Maria Ressa ha concluso il suo intervento dando quattro suggerimenti ai colleghi giornalisti:
1. Collaborare, collaborare, collaborare – costruire e rafforzare la fiducia ora per chiudere le linee di frattura della società che le operazioni informatiche cercheranno di aprire, mettendoci gli uni contro gli altri; 2. Parlare di verità con chiarezza morale – il silenzio di fronte all’ingiustizia è complicità. è complicità. Che si tratti di razzismo sistemico, disuguaglianza economica o erosione delle norme democratiche, le persone di fede devono reclamare la loro voce profetica. Esigere trasparenza e responsabilità da parte di coloro che controllano i nostri ecosistemi di informazione pubblica – dai governi alle Big Tech ai media; 3. Proteggere i più vulnerabili – Sostenere i giornalisti, i difensori dei diritti umani e gli attivisti che rischiano il loro lavoro, i difensori dei diritti umani e attivisti che rischiano la vita. Ricordate la citazione di Martin Neimoller dalla Germania? Ecco la nostra versione del PH, pubblicata dal nostro principale quotidiano dopo il mio primo arresto: “Prima sono venuti a prendere i giornalisti. Non sappiamo cosa sia successo dopo”. Le vostre reti possono essere potenti scudi per le comunità emarginate. Sostenete gli immigrati, le minoranze religiose, le persone LGBTQ+ e altri che subiscono discriminazioni. La nostra vigilanza collettiva può impedire la normalizzazione dell’odio. 4. Riconoscere il proprio potere – La costruzione della pace non è riservata agli eroi. eroi; è un lavoro collettivo di persone che si rifiutano di accettare e vivere nella menzogna. Rappler non sarebbe sopravvissuto senza l’aiuto della nostra comunità, che mi ricorda sempre la bontà della natura umana. Voi siete potenti e potete far parte di un’onda anomala di cambiamento per il bene. Questo è alimentato dall’amore.
Permettetemi di ripeterli ancora una volta: Collaborare, collaborare, collaborare; dire la verità con chiarezza morale; proteggere i più vulnerabili e riconoscere il proprio potere.
Anche nei momenti peggiori, la speranza non è passiva; è attiva, incessante e strategica. Le nostre tradizioni di fede portano con sé secoli di resilienza; dobbiamo condividere queste storie di trasformazione. Infine…c’è una citazione di TS Eliot che amo a proposito del “momento presente del passato”. È l’idea che l’ultimo romanzo che leggete è influenzato dal fatto che avete letto Shakespeare, ma la vostra comprensione e il vostro apprezzamento di Shakespeare saranno influenzati dall’ultimo romanzo che avete letto. In questo momento presente del nostro passato condiviso, abbiamo una scelta – che creerà il nostro futuro così come cambierà il modo in cui guardiamo al nostro passato. Possiamo permettere che le linee di frattura della nostra società si aprano. Oppure possiamo lavorare per sanare le crescenti divisioni. Perché questo è il momento. Questo tempo è importante. Ciò che scegliete di fare è importante”.
E’ stata poi la volta dello scrittore Colum McCann che nel suo intervento è partito da uno scambio epistolare tra Albert Einstein e Sigmund Freud per estendere la sua riflessione a tematiche molto attuali come la mancanza di ascolto e la solitudine e l’isolamento legati al progresso.
“Circa cento anni fa, si svolse un intenso scambio epistolare tra Albert Einstein e Sigmund Freud. Einstein, “il padre della teoria della relatività”, era alla ricerca di una Teoria del Tutto; mentre Freud, noto come il “padre della psicoanalisi”, si dedicava all’indagine della mente e del corpo umano.
Entrambe le figure erano intellettuali di riferimento del loro tempo, ma vivevano in un’epoca gravata da ombre profonde. L’Europa stava cercando di risollevarsi dalla devastazione di una guerra mondiale e, sebbene nessuno dei due uomini potesse saperlo con certezza, il mondo sembrava avvicinarsi pericolosamente all’orlo di un nuovo disastro.
Einstein, angosciato dalla propensione dell’umanità al conflitto, pose a Freud una domanda cruciale. Gli scrisse chiedendo se ritenesse possibile «indirizzare lo sviluppo psicologico dell’umanità in modo da renderla immune alle psicosi di odio e distruzione, liberando così gli uomini dalla fatalità della guerra».
Era un quesito audace e visionario: come avremmo potuto salvare la civiltà dalle macerie della guerra e, magari, coltivare l’idea di una pace mondiale?
La risposta di Freud, benché ponderata, fu tutt’altro che confortante. Espresse il suo rammarico, spiegando che per tutta la vita aveva rivelato verità difficili da accettare, e questa non faceva eccezione. A suo giudizio, le possibilità che l’umanità riuscisse a vincere i grandi mali della guerra erano estremamente ridotte. Freud sosteneva che l’umanità fosse dominata da un istinto innato verso l’odio e la distruzione che, secondo lui, sarebbe stato impossibile sradicare del tutto.
Eppure, nella sua analisi lasciò intravedere un barlume di speranza. Porre fine alla guerra potrebbe essere un ideale irrealizzabile, ma opporvisi e lottare per la pace e la giustizia rimangono mete accessibili. «Qualsiasi cosa» osservò, «che favorisca legami emotivi tra gli esseri umani deve per forza costruire un freno alla guerra». Freud indicava che l’umanità avrebbe dovuto aspirare alla creazione di «una comunità di sentimento» e «una mitologia delle pulsioni».
Una comunità di sentimento. Una mitologia delle pulsioni… o, come potremmo più semplicemente definirla oggi: una storia, una parabola.
Stiamo vivendo un’epoca straordinariamente umana e al contempo profondamente disumana. Da un lato, abbiamo raggiunto traguardi spettacolari nella scienza, nella medicina, nell’arte e nella tecnologia. Siamo in grado di connetterci istantaneamente gli uni con gli altri, di cogliere le sfumature delle vite altrui anche a grandi distanze. I nostri telefoni funzionano, i nostri interruttori rispondono, dai nostri rubinetti scorre l’acqua. I nostri satelliti orbitano. Le nostre medicine curano. Le macchine della nostra esistenza pulsano a un ritmo ininterrotto.
Eppure, nello stesso momento, questo progresso è accompagnato da un’epidemia di solitudine e isolamento. Spesso scegliamo di non ascoltarci. Chiudiamo le tende. Sigilliamo le finestre. Innalziamo barriere. Ci rifiutiamo di attraversare la strada per tendere una mano. Restiamo ancorati ai nostri angusti canali di certezze. Ci rifugiamo nel conforto impersonale dei nostri dispositivi, mentre gli spazi minuscoli che ci separano si dilatano sempre più con il trascorrere di ogni singolo istante.
La tensione cresce. Si tende alle estremità, si tende…si tende…e si tende… finché, alla fine, avviene la rottura.
I tempi si spezzano.
Quasi un secolo dopo lo scambio epistolare tra Einstein e Freud, ci troviamo ancora una volta a fare i conti con le stesse domande fondamentali: Come possiamo prevenire le guerre che minacciano di annientarci? Come possiamo contrastare gli effetti devastanti del cambiamento climatico? Come possiamo gestire le immense pressioni geografiche e sociali legate alla migrazione? Come possiamo affrontare le complesse questioni di identità e appartenenza? Come possiamo imparare a riconoscerci e comprenderci l’un l’altro, nonostante le crescenti divisioni? E, soprattutto, come possiamo mettere al servizio della comunicazione e della comprensione reciproca la nostra indiscutibile genialità: la tecnologia, la medicina, l’intelligenza artificiale, la fede?
Se il mondo è fatto di molecole e atomi, è anche fatto di storie.
La distanza più breve tra noi non si misura in millimetri né un micrometri: è una storia. È attraverso le storie che ci connettiamo davvero. Le nostre vite si intrecciano. Le nostre idee risuonano. Ci alimentiamo reciprocamente. Creiamo nuova energia. I quark delle nostre esperienze si combinano fra loro per formare nuovi mattoni della realtà. Lanciamo una rete che abbraccia una comprensione molto più ampia, dando al mondo una struttura più profonda. Le storie contano. Hanno il potere di cambiare il corso della Storia. Possono salvarci. Sono la colla che ci tiene uniti: senza storie non possiamo comunicare, e senza comunicazione non siamo nulla.
Questo è ancora più vero quando ci prendiamo il tempo di comprendere le storie di chi sembra diverso o lontano da noi. Ci fermiamo. Ascoltiamo. Cresciamo, spingendoci oltre noi stessi. Il mondo, in fondo, è fatto delle storie degli altri, persino ̶ e forse soprattutto ̶ di quelli che non conosciamo, o che non abbiamo ancora avuto modo di conoscere.
Chi può negare l’umanità di una persona dopo aver ascoltato la sua storia? Chi può lanciare un missile su un mercato dopo aver conosciuto la storia della donna che gestisce il banco della frutta? Chi può tollerare che i propri leader blocchino un camion carico di cibo di emergenza in una zona di guerra, dopo aver sentito la storia di un bambino che sta morendo di fame, al freddo e al buio? Chi può avere il coraggio di chiudere il cancello di confine in faccia a un ragazzo in sedia a rotelle che sta viaggiando per ricevere un trattamento salvavita?
Poniamoci questa domanda: Chi? Chi? Chi? E poi, prendiamoci un momento per riflettere sulla risposta.
La triste e brutale verità è che, nel mondo di oggi, un numero sempre maggiore di noi può farlo.
L’essenza del nostro attuale dilemma non risiede tanto nel silenzio, quanto nell’atto di zittire. Quando ci rifiutiamo di ascoltare le storie degli altri o, più dolorosamente, quando impediamo loro di raccontarle, o ancora peggio, quando cancelliamo del tutto quelle loro storie, il mondo si riduce a uno spettacolo di meschinità. Il nostro rifiuto di andare oltre noi stessi ̶ o almeno oltre chi non ci somiglia, chi non parla come noi, chi non vota come noi ̶ è il nucleo della nostra possibile rovina. Questa chiusura pericolosa ha il potere di annientarci. Come un’arteria ostruita, blocca il flusso vitale della nostra umanità. Il cuore si ferma. Non ci resta che confinarci nella prigione del nostro ego. Non riusciamo più ad amare il prossimo, perché abbiamo ridotto il concetto di “prossimo” alla nostra immagine riflessa. E quando non vediamo altro prossimo che noi stessi, perdiamo ogni significato che vada oltre il nostro sguardo solipsistico.
Chi siamo se siamo solo noi stessi? Diventiamo il vuoto che tanto temiamo. Consentiamo che si compiano grandi crimini: la distruzione dell’ambiente, l’annientamento del nostro prossimo, la perpetuazione della povertà. Ci condanniamo alla perdita di significato.
Se noi – come governo, azienda, chiesa o comunità – possiamo negare a un’altra persona la sua storia, possiamo anche negarle la sua stessa esistenza. Questo è uno strumento di potere subdolo e devastante. Semina la paura. Alimenta l’isolamento. Disumanizza. La paura vende. L’ignoranza vende. E l’odio, nato dalla paura e dall’ignoranza, guadagna terreno. Le menzogne si moltiplicano. I pettegolezzi si diffondono. Le false narrazioni si radicano. Ma una storia negata non può essere compensata da una menzogna raccontata. È qui che entra in gioco il disequilibrio di potere. Il potere sa bene che se controlli – e quindi limiti – le storie degli altri, controlli tutto, persino le persone stesse. Le storie autentiche degli altri – complesse, contraddittorie e profondamente umane – vengono cancellate. La verità viene imprigionata, messa in catene e ridotta al silenzio.
Senza una storia, la presenza e persino l’esistenza degli altri si dissolvono. Questo accade in modo evidente in molti luoghi: Ucraina, Gaza, Sudan. Ma accade anche vicino a noi, nel profondo dei nostri cuori.
L’annientamento delle storie di coloro che percepiamo come nemici – che in realtà non sono altro che il nostro prossimo – rappresenta una delle armi più insidiose al mondo. La nostra incapacità di accedere alle storie degli altri, ricche di sfumature e di significato, unita al rifiuto di creare spazi di ascolto e di dialogo, costituisce uno dei pericoli più gravi della nostra epoca.
Se viviamo in tempi di rottura, allora il nuovo tema deve essere la riparazione. Come possiamo riparare ciò che è così evidentemente rotto? Einstein credeva che una forma di guarigione sarebbe arrivata attraverso la creazione di un governo mondiale. Da questa visione sono nate organizzazioni come le Nazioni Unite. La sua speranza era che i leader mondiali ci guidassero verso una sorta di coesione globale, ma questo processo non si è sviluppato come avremmo sperato. Sebbene queste istituzioni abbiano ottenuto molti risultati positivi, ci ritroviamo ad affrontare una crisi che è sempre più profonda.
Nei decenni passati, l’approccio alla gestione del potere è stato “dall’alto verso il basso.” I leader imponevano le loro idee. Le decisioni venivano prese ai massimi vertici per poi filtrare giù attraverso una struttura gerarchica. Di solito, allora ̶ e ancora oggi ̶ si presumeva che i nostri leader agissero nell’interesse del bene comune.
Ma oggi viviamo in un’epoca che riconosce il principio dell’emergenza. Questo principio afferma che una moltitudine di entità semplici, che siano neuroni, batteri, formiche o persone, può manifestare proprietà che vanno ben oltre le singole capacità di un individuo. Gli uccelli in stormo, per esempio, che volteggiano nel cielo creando formazioni armoniose e perfette, mostrando qualità emergenti. Le api diventano straordinarie quando lavorano all’unisono. E così i gruppi di persone: possono possedere un’intelligenza – o una stupidità – che supera di gran lunga la somma delle loro capacità individuali.
Anche il racconto di storie possiede qualità emergenti e, in questi tempi turbolenti, condividere le nostre storie e ascoltare quelle degli altri, potrebbe essere una delle poche cose in grado di salvarci.
Raccontare storie è un invito all’azione. Ascoltare storie è una forma di preghiera.
In Narrative 4, un’organizzazione globale no-profit che dà ai giovani il potere di creare cambiamenti attraverso il racconto e l’ascolto delle storie, abbiamo scoperto una formula semplice ma potente per avviare una trasformazione. Tu racconti la mia storia, io racconto la tua. In prima persona. Faccia a faccia. Non una storia didattica, ma una storia profondamente personale. Non qualcosa per dominare in una discussione, ma qualcosa capace di scuotere l’anima. Una parabola, se volete. Qualcosa che accede alla verità senza bisogno di fare dichiarazioni. Qualcosa che è umile. Qualcosa che abbassa la testa. Qualcosa — o meglio, qualcuno — che ascolta. Abbiamo realizzato il programma Narrative 4 in Irlanda, in Messico, negli Stati Uniti, in Nigeria, in Sud Africa e in decine di altri paesi nel mondo.
Inizia nelle nostre aule, perché ciò che accade al loro interno plasma il resto delle nostre vite. Da lì, si espande verso l’esterno — attraverso la città, il paese, gli oceani — creando una rete di connessioni. Raccontando e ascoltando, i giovani presto si rendono conto di quanto siamo più simili che diversi. Grazie a questa condivisione, non solo viviamo nella storia di un’altra persona, ma ascoltiamo la nostra stessa storia che ci viene raccontata. E in questo processo, semplice ma straordinario, riconosciamo la nostra condivisa umanità.
Nel suo messaggio per la 54ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, Papa Francesco ha scritto: «Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri.»
L’atto di ascoltare e parlare rafforza le nostre stesse idee di pace, uguaglianza, democrazia e comprensione. Le storie possono ispirare l’azione, che a sua volta può portare al cambiamento. Invece di essere imposto dall’alto, questo cambiamento emerge dal basso. Anche se non siamo d’accordo l’uno con l’altro. Anche se viviamo oltre un confine. Anche se le nostre storie sono profondamente diverse. Anche, perfino, se non ci piacciamo.
Sono stato fortunato ad avere l’opportunità di scrivere le storie di due padri, uno israeliano e uno palestinese, Rami Elhanan e Bassam Aramin. Nonostante abbiano perso le loro figlie in incidenti separati durante il conflitto, sono diventati buoni amici. E ciò che rende la loro storia ancora più sorprendente, è che sono riusciti a mantenere questa amicizia. Viaggiano insieme per il mondo, condividendo le loro esperienze. La loro filosofia è semplice e profonda: non è necessario che ci amiamo. In realtà, non è nemmeno necessario che ci piacciamo. Ma dobbiamo… dobbiamo… dobbiamo capirci, altrimenti siamo perduti.
E così continuano a viaggiare. Continuano a raccontare le loro storie. Sono diventati pellegrini della speranza.
È un compito che spetta a ciascuno di noi – studiosi, scrittori, meccanici, studenti, religiosi, addetti alle pulizie – ma, in particolare, spetta ai nostri insegnanti e giornalisti, che sono in una posizione unica per guidare questo nuovo principio di emergenza. Tra i “pellegrini della speranza” che onoriamo qui oggi, sono i nostri insegnanti, i nostri giornalisti, i nostri comunicatori a guidarci lungo gran parte del cammino. Sono in una posizione privilegiata per aiutare a raccontare le storie degli altri. Sanno che affinché una storia venga raccontata, deve prima essere ascoltata con attenzione. E queste storie, insieme alla comprensione che promuovono, possono andare oltre l’aula o la redazione, e attraversare strade, città, paesi, oceani, e raggiungere altri continenti.
Come pellegrini, chinando il capo sulla strada impervia, proseguiamo il cammino, portando la nostra umanità, e l’umanità degli altri, da un luogo all’altro.
Se tutto ciò suona come un fervido appello, che lo sia: è un fervido appello. Viviamo tempi pericolosi. Non possiamo permetterci di ignorare le esperienze degli altri. Raccontare e ascoltare storie salverà il mondo? Forse sì, forse no… ma sicuramente offrirà, se non altro, uno spiraglio di luce e di comprensione. E dove c’è uno spiraglio di luce, c’è la possibilità che se ne presentino molti altri, agendo e collaborando insieme, fino a quando almeno una parte delle tenebre non verrà squarciata”.
Al termine il Maestro Uto Ughi insieme alla sua orchestra hanno deliziato i seimila presenti con un magnifico concerto che ha preceduto l’arrivo in Aula di Papa Francesco.
di Francesca Monti
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