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La cartolina non è quella tipica della Sardegna mare smeraldo e ville di lusso. Quando, dopo un’oretta di auto da Cagliari, raggiungiamo il polo industriale di Portovesme, nel sud-ovest dell’isola, a colpirci è il color ruggine. Sono ruggini i nastri trasportatori, i silos, le tante ciminiere spente e gran parte degli stabilimenti dall’aria dimessa. In prossimità della centrale a carbone Enel, obsoleto cuore energetico sardo, prendiamo una stradina sterrata che ci porta al mare, contornando la famosa discarica dei fanghi rossi. Dall’esterno non si vede nulla, ma il satellite mostra un enorme bacino rossastro: si tratta degli scarti della lavorazione della bauxite. Un tempo, qui, si compiva l’intero ciclo di produzione dell’alluminio: in porto arrivava la bauxite che veniva prima trasformata in allumina, successivamente in alluminio primario e poi in prodotti semilavorati. Si parla al passato, perché sono anni che la filiera è stata fermata, nonostante le promesse e le grandi mobilitazioni operaie.
Il “Messia” giunto da Lugano
«Dopo la vertenza con l’Alcoa, ho vissuto quattro anni in questa tenda davanti ai cancelli. Poi nel 2018 ho ripreso a lavorare, pieno di speranze. La nuova proprietà svizzera aveva promesso assunzioni e il rilancio della produzione. Ma non è stato fatto nulla, se non smantellare parte della fabbrica». Andrea* è un operaio specializzato che lavora per una ditta del gruppo Sider Alloys, la società di Lugano che nel 2018 ha acquisito l’unico impianto italiano che produceva alluminio primario**.
Lo incontriamo alla fine del suo turno, nel parcheggio aziendale desolatamente vuoto, di fronte ai quattro immensi silos – anch’essi vuoti – dove veniva stoccata l’allumina prodotta dall’adiacente Euroallumina, azienda di proprietà della russa Rusal, ferma dal 2009. L’operaio ci racconta di quando producevano 150mila tonnellate annue di alluminio di prima qualità, venduto a clienti come la Ferrari. La multinazionale americana Alcoa se n’era andata nel 2012, puntando su un nuovo stabilimento in Arabia Saudita. Seguì un periodo di lotte e di vuoto, apparentemente colmato nel 2018 dall’arrivo di Giuseppe Mannina, presunto Messia giunto dal Ticino.
L’imprenditore di origine siciliana, già responsabile della filiale di Mosca della luganese Duferco, aveva proposto all’allora ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda di far ripartire una produzione giudicata strategica. Lo stabilimento copriva infatti il 15% circa del fabbisogno italiano. La Sider Alloys di Mannina, società di trading senza storia produttiva, prese così possesso dell’impianto per 1 euro simbolico. La promessa: reintegrare gli oltre 400 operai e portare avanti un piano industriale da 150 milioni di euro, tra fondi propri, finanziamenti pubblici, prestiti a tasso agevolato e una dote di 20 milioni lasciata dall’Alcoa.
In realtà, ci dice Andrea, è stato fatto poco: «È stata riattivata la fonderia, ma il cuore dello stabilimento – la sala elettrolisi per la produzione di alluminio primario – è stata smantellata e vario materiale è stato venduto. Doveva essere installata una nuova tecnologia cinese, ma il suo mancato arrivo è stato giustificato con ogni tipo di scusa, dalla pandemia alle guerre».
Oggi qui lavorano meno di 80 persone, affrante e sempre più arrabbiate dai ritardi nel pagamento degli stipendi, dalle ferie forzate e del mancato versamento della tredicesima. Proprio il giorno del nostro arrivo, Giuseppe Mannina si è presentato in fabbrica per raccontare ai lavoratori che le banche dovrebbero concedergli nuovi crediti: a suo dire servirebbero altri 200 milioni per rilanciare la produzione. Ma nessuno, nel profondo Sulcis, ci crede più.
Lugano – Lussemburgo – Isole Vergini
Secondo i bilanci che abbiamo potuto consultare, nel 2023, la Sider Alloys Italia SPA – la società che controlla l’impianto sardo – ha venduto per oltre 1 milione di euro di alluminio alla Sider Alloys SA di Lugano. In molti si chiedono da dove arrivi questo materiale, dato che la produzione di alluminio primario è ferma mentre quello riciclato è lavorato per conto di clienti terzi. «È possibile che si tratti dell’alluminio ancora presente in azienda, nelle celle elettrodiche smantellate, e poi venduto in Svizzera» ci dice ancora Andrea. Che aggiunge: «Tutto quello che ha potuto essere venduto è stato venduto, e ora non abbiamo neanche un chiodo».
Sider Alloys SA ha sede a Lugano, presso gli uffici di Trasteel, una società attiva nel commercio e nella produzione di acciaio fondata nel 2009 da Massimo Bolfo, nipote del patron di Duferco Bruno Bolfo, e da alcuni manager fuoriusciti dalla stessa Duferco, allora era uno dei più importanti commercianti di prodotti siderurgici al mondo. Nel capitale di Trasteel era entrato anche lo stesso Mannina che, in parallelo, ha deciso di scommettere anche sull’alluminio con il progetto Sider Alloys lanciato verso il 2010.
Seguendo l’esempio di Duferco, Sider Alloys (e Trasteel) ha creato una propria holding in Lussemburgo, anche se il cuore operativo e decisionale resta Lugano. Proprio da alcuni documenti depositati nel registro di commercio del Gran Ducato emerge che la holding madre, nel dicembre 2019, ha ricevuto 4 milioni di euro a titolo di aumento di capitale da una società delle Isole Vergini Britanniche, la Idabel Limited, riferibile allo stesso Mannina. Poco dopo, la ticinese Sider Alloys Intl SA, un’altra entità della stessa galassia societaria, aumenta a sua volta il capitale di 4 milioni di franchi. Un giro di soldi volto a rilanciare lo stabilimento sardo, da poco sotto il controllo di Sider Alloys? Non lo sappiamo, ma dato i risultati sul campo non si direbbe che ciò sia bastato.
Tavolo di crisi convocato a Roma
«L’Alcoa ha lasciato un impianto pronto a ripartire che invece è stato da subito smantellato. Sider Alloys in sette anni non ha fatto nulla se non prendersi i soldi. È ora di dire basta: la società non è più credibile e se ne deve andare». Roberto Forresu, segretario regionale della FIOM, non usa mezzi termini di fronte all’operato dell’azienda di Lugano. Ci ha dato appuntamento nella sede del sindacato CGIL di Carbonia, cittadina di un entroterra da cui un tempo si estraevano carbone e altre materie prime. Il sindacalista è una memoria storica del polo industriale del Sulcis, creato dall’ente pubblico nel 1960 e che è arrivato ad impiegare fino a 12.000 persone. Oggi sono meno di 2.000.
Il caso Sider Alloys è sintomatico di un territorio sempre meno attrattivo, se non per spericolati capitani d’industria alla Giuseppe Mannina, con poca esperienza nel mondo dell’alluminio. La vertenza Sider Alloys ha ormai preso una dimensione nazionale. Anche perché lo Stato italiano, attraverso l’Agenzia nazionale per lo sviluppo d’impresa (Invitalia), detiene il 20% della fabbrica: «Lo Stato è complice, non essendo stato in grado di controllare lo scempio che ci ha portato all’attuale disastrosa situazione». Il ministro Adolfo Urso ha convocato un tavolo di crisi per domani, 30 gennaio 2025. Per Roberto Forresu, l’obiettivo è chiaro: «Il Governo deve cercare nuovi soggetti imprenditoriali, dato che in Sider Alloys non crediamo più».
Assemblea operaia
Il 17 gennaio il ministro Adolfo Urso ha convocato a Roma le istituzioni regionali per affrontare le problematiche dell’industria del Sulcis. Oltre al caso Sider Alloys, vi è anche la vertenza che concerne un’altra multinazionale svizzera: la Glencore, proprietaria della Portovesme SRL, che ha deciso a fine 2024 di chiudere la linea di produzione dello zinco, dopo aver chiuso quella del piombo nel 2023. Circa 1.200 persone, tra diretti e indiretti, rischiano il posto di lavoro. Una mazzata sul tessuto socio-economico di una regione già in crisi. Per questo a Portoscuso, in mattinata, i sindacati locali hanno convocato un’assemblea dei lavoratori per fare il punto sulle crisi nelle diverse fabbriche. Ci siamo stati anche noi.
All’entrata uno striscione recita: “Sider Alloys Via! Adesso basta!”. Alle 8 del mattino la sala è piena di circa duecento lavoratori, perlopiù sopra i cinquant’anni. I volti sono segnati, i toni accesi, la rabbia è grande di fronte all’operato di chi come Glencore, dopo aver spremuto il territorio come un limone, delocalizza a favore di un maggior guadagno. L’indignazione sale quando si accenna a Sider Alloys, la cui incapacità industriale è ormai accertata. «A differenza degli altri attori industriali presenti qui, Sider Alloys era riuscita a strappare un accordo bilaterale di forniture elettriche con l’ENEL molto favorevole. Ma non le è servito, dato che non ha fatto partire una produzione che poteva partire subito» ci dice Gianni*, un operaio specializzato che porta la tuta con il logo della Sider Alloys. È stanco di lottare per il suo lavoro: «Mannina avrebbe dovuto sapere che gestire una produzione non è come gestire un ferramenta. In questo settore non ti puoi improvvisare e il Governo ora dovrebbe farglielo capire chiaro e netto».
La palla va ora alla politica che, oltre a trovare nuovi investitori, dovrebbe comprendere le cause che hanno determinato l’attuale emergenza. A partire dall’inesistenza di un chiaro piano industriale ed energetico per il paese. Lasciamo il Sulcis sotto una pioggia che rende tutto ancora più triste. Lungo la strada il levantazzo spinge le numerose pale eoliche spuntate in questi anni. Una domanda sorge spontanea: è vera transizione energetica, oppure si tratta dell’ennesima speculazione di cui è vittima questa terra sfruttata?
*Nomi di fantasia
**Contattata, la società non ha risposto alle nostre domande
Il personaggio
Giuseppe Mannina, il trader che voleva produrre alluminio
Giuseppe Mannina è un uomo discreto. Poco più che ventenne è partito dalla Sicilia per New York, per lavorare per la Siderexport, trading appartenente a Finsider, la società di proprietà dello stato italiano che operava nel settore siderurgico e che aveva il controllo dell’Italsider (poi divenuta ILVA) e di altre acciaierie della Penisola. Il suo capo è un certo Bruno Bolfo, genovese, che poco dopo si mette in proprio e fonda in Brasile la Duferco. Quest’ultima si stabilirà a Lugano nel 1982 e presto diventerà uno dei principali commercianti indipendenti d’acciaio del mondo. Bolfo si attornia all’epoca di persone fidate e tra queste giunge sulle rive del Ceresio anche Giuseppe Mannina. Negli anni novanta, a seguito della caduta dell’impero sovietico, Duferco si lancia in Russia dove prende il controllo di alcune acciaierie e stringe alleanze con i nascenti oligarchi che – con ogni metodo – hanno preso possesso delle materie prime e degli asset produttivi del paese. Sono anni selvaggi, di grande caos, ma dove si possono fare grandi affari. Bruno Bolfo, anticipatore e giocatore, lo aveva capito. Il suo piano era preciso: rilevare a prezzo di saldo le dismissioni della filiera delle acciaierie pubbliche e mettere così le mani alla radice del ciclo produttivo che, venduto sui mercati internazionali, poteva portare una valanga si soldi. A dirigere la filiale di Mosca di Duferco viene chiamato Giuseppe Mannina, abile a relazionarsi in quel mondo complesso.
Tra gli alleati di Duferco vi è il gruppo Evraz, nel cui cda entra lo stesso Bolfo. Nel 2006, però, il patron ligure lascia la società e si allea con un altro oligarca, Vladimir Lisin, principale azionista di un altro colosso siderurgico, la NLMK. A quel punto Giuseppe Mannina resta fedele ad Evraz e diventa il responsabile della logistica e del marketing per questo colosso finito poi nelle mani di Roman Abramovich. Mannina costituisce in Svizzera, prima a Lugano e poi a Zugo, le antenne di trading di Evraz. Poi decide di mettersi in proprio. Da parte ha messo via un bel gruzzoletto, come sembra dimostrare l’apporto, in arrivo dalle Isole Vergini, alla holding di Sider Alloys in Lussemburgo o i capitali, sempre di provenienza offshore, in entrata del capitale di Trasteel Holding, nel Gran Ducato. In Sider Alloys si attornia anch’egli di colleghi fidati, come Alfredo de Vito e Edoardo Dodero, mentre altri soci presenti in Trasteel, presente anche nel settore produttivo in Italia, finiscono in vari consigli di sorveglianza dell’avventura sarda. Tutta questa rete sembra però non essere sufficiente per riuscire laddove aveva fallito l’Alcoa, multinazionale USA specialista proprio dell’alluminio. Resta da capire, in fin dei conti, quanto Mannina da questa operazione ci abbia guadagnato. Sulle spalle dei lavoratori e di un territorio sempre più in crisi.
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