AF25: il doppio filo che lega agricoltura ed energia

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Il settore agroalimentare ha un preciso ruolo nella transizione energetica. Un ruolo richiesto dal processo di decarbonizzazione mondiale ma anche dalle potenzialità, nascoste e non, di accelerare lo sviluppo sostenibile. Per il comparto prendere parte al cambiamento significa non solo ridurre il proprio impatto sul clima ma anche procurarsi gli strumenti con cui rendersi più resiliente e competitivo di fronte alle sfide attuali. Di queste opportunità  e del doppio filo che lega agricoltura ed energia pulita si è parlato nel corso del panel dedicato al valore dell’energia dell’Agrifood Forum, l’evento realizzato da Rinnovabili in collaborazione con Confagricoltura e dedicato alla sostenibilità dei sistemi agroalimentari. 

“La questione dell’agricoltura rispetto all’ambiente – ha detto in apertura del panel Mauro Spagnolo, direttore di Rinnovabilisi può sintetizzare nel rapporto tra produzione alimentare, che è sempre più esigente sia in termini di quantità sia di qualità, con una gestione efficiente delle risorse. Il tema è tutto qui […] L’aumento del costo dell’energia convenzionale dovuto ai problemi geopolitici, che tutti conosciamo oramai da tre anni a questa parte, sta accentuando questa difficoltà, questo mancato equilibrio produttività del ciclo e gestione efficiente delle risorse. Ecco quindi che il tema principale è quello dell’efficienza. Di qualsiasi risorsa parliamo dobbiamo andare velocemente verso un approccio efficiente”.

L’efficienza fa il paio con lungimiranza e la capacità di adottare strumenti che non solo puntino allo sviluppo sostenibile ma che abbiano anche un vantaggio sulla competitività del comparto.

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Come spiegato da Donato Rotundo, responsabile Energia Confagricoltura, negli ultimi anni sono emerse chiaramente due tendenze nelle imprese agricole, quella di diversificare le entrate attraverso le cosiddette attività connesse – agriturismo, conto terzi e produzione rinnovabile –  e l’esigenza di affidarsi all’autoconsumo per soddisfare le proprie esigenze energetiche.

Un approccio che ha permesso al settore di rendersi più resiliente nei confronti delle crisi. “Abbiamo perso 500.000 aziende nel giro di dieci anni […] Tra il 2010 e il 2022 abbiamo avuto una perdita di produzione lorda vendibile del 5%. Se non vi fossero stati questi 15 miliardi delle attività connesse il crollo dell’agricoltura sarebbe stato ancora più evidente. In questo contesto la produzione di energia rinnovabile rappresenta più o meno il 16% delle 65.000 aziende che fanno attività connesse. 

i numeri non mentono: il comparto agricolo ha installato già 3.500 MW, tenendo conto solo del fotovoltaico, biogas e biomasse. “Stimiamo che nel 2026 probabilmente, non dico che raddoppieremo, ma arriveremo ad avere 5-6 GW solo in agricoltura, quindi un importante investimento”. 

Un ruolo di primo piano lo ha anche l’autoconsumo, fotovoltaico in primis (dal 14 al 17% della produzione agricola) grazie anche al sostegno di misure come il parco Agrisolare del PNRR. Approccio fondamentale per un settore che è anche un consumatore importante di energia e che oggi può allargare i suoi confini grazie alle nuove configurazioni dell’energy sharing. In questo contesto “noi come Confragricoltura siamo impegnati su questo, stiamo per creare la prima comunità energetica nazionale grazie a un’interpretazione che c’è stata della normativa da parte del GSE che ci permetterà di semplificare molto il percorso delle comunità energetiche”.

I punti da tenere d’occhio per il futuro? Il post PNRR. “Dobbiamo sapere che si fa dopo il 2026, perché gli obiettivi al 2030 implicano di avere alcune certezze”, ha sottolineato Rotundo. “Lo chiediamo sul biogas, sulle biomasse e sull’agrivoltaico per alcuni aspetti perché il bando non è stato completato, quindi c’è ancora possibilità a una serie di imprese di entrare e quindi portare avanti una serie di tematiche”.

In tema di attività connesse e autoconsumo uno degli ultimi trend energetici che sta caratterizzando le imprese agricole è l’agrovoltaico. A raccontarne i passaggi fondamentali è stato Fabio Salis, Regulatory and Public Affairs Manager di Iberdrola, realtà che prima di altre ha studiato e dato corpo al nuovo connubio tra campi ed energia solare. “L’agrivoltaico in Italia rappresenta un nuovo paradigma anche culturale, fondamentale. Per noi fare agrivoltaico  significa creare un sistema complesso, tridimensionale, in cui la parte agricola e la parte ingegneristica di produzione energetica creino un’integrazione sinergica” che punta alla massima resa per entrambe. 

Come nasce un progetto agrovoltaico? Dall’identificazione dei terreni dal punto di vista energetico. “Da lì si individuano anche le caratteristiche del terreno dal punto di vista colturale, se sussistono già delle attività agricole” o, se al contrario, bisogna iniziare un’attività agricola su terreno abbandonato per lungo tempo. Ipotesi non così peregrina dal momento che in Italia si contano al momento 4 milioni di ettari abbandonati.

Il passo successivo è cercare insieme agli agronomi e all’agricoltore “che deve essere protagonista”, di progettare un sistema che non sia prettamente ingegneristico ma agronomico. “Dal punto di vista della configurazione spaziale abbiamo adesso delle linee guida che chiariscono che è necessario garantire un’attività agricola per almeno il 70% dell’occupazione delle aree, una proiezione al suolo dei pannelli che comunque deve stare nel 40%, quindi se fa agricoltura nel nostro caso interfilare tra una fila di pannelli e l’altra tendiamo a lasciare almeno 10-12 metri per consentire teoricamente anche a 3 trattori di fare tutte le attività necessarie e in parte sotto il pannello”.

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Dai campi alle foreste, con il contributo delle biomasse legnose. “Abbiamo sentito parlare poc’anzi di 3.500 MW di FER che fanno riferimento alla produzione elettrica”, ha commentato Vanessa Gallo, Segretario Generale FIPER. “Non dimentichiamoci che il termico, come si dice a livello europeo, viene considerato il gigante dormiente, nel senso che la maggior parte, soprattutto in ambito rurale delle terre medie, alte e altissime, si riscalda ancora con legno che può essere la legna da ardere, il pellet o il cippato”.

“Il nostro obiettivo – ha continuato Gallo – è fare proprio in modo che questa filiera possa giocare un ruolo di primo piano, perché si tratta di una risorsa a chilometro zero e molto più disponibile di altre. Come FIPER, con le altre associazioni di categoria, stiamo proponendo al Governo, tra l’altro anche con Confagricoltura, di rivedere i target del PNIEC, perché crediamo che sia stato sottovalutato il potenziale d’utilizzo delle biomasse proprio per la transizione ecologica”.

Due dati su tutti. L’attuale Piano Nazionale Energia e Clima prevede 6,1 Mtep collegate alle biomasse, mentre secondo alcuni studi effettuati dall’associazione trasversalmente tra tutte le filiere delle biomasse, si stima che l’Italia possa raggiungere i 16,5 Mtep.

Ma accanto alle filiere forestali esistono anche una serie di filiere altrettanto importanti ma che non vengono definite a livello legislativo  in maniera virtuosa, come ad esempio quella per la gestione degli alberi fluviali, dei parchi, o di tutto ciò che riguarda la cosiddetta “foresta urbana”. “Nel nostro ordinamento, purtroppo, tutto questo materiale di origine legnosa viene annoverato nel regime dei rifiuti. Una battaglia che stiamo facendo sia a livello nazionale che a livello europeo è fare in modo che questo tipo di materiale venga valorizzato in primis dalla filiera energetica e possa essere funzionale anche a tutta una serie di operatori di filiera che non trovano in questo momento disponibilità a prezzi competitivi della biomassa legnosa”, ha concluso Gallo.

Dalla biomassa al biogas, un settore ben radicato nel comparto agricolo italiano e che negli anni ha prodotto risultati entusiasmanti. Le cose più importanti non sono tanto i numeri che abbiamo sviluppato –   ha sottolineato nel suo intervento Piero Gattoni, presidente CIBquanto il modello con cui lo abbiamo fatto”. Parliamo del Biogasfattobene è un modello di agricoltura circolare che utilizza un processo naturale per produrre energia e fertilizzanti rinnovabili e sostenibili. L’elemento clou? La digestione anaerobica. Questa tecnologia “che permette di integrare le sottoproduzioni, aumentare le culture di integrazione, usare il digestato come fertilizzante organico, è stata determinante per spingere le nostre aziende ad un modello di economia circolare sicuramente più virtuoso e più competitivo”.

Un modello che guarda al lungo periodo per ottenere benefici a 360°. “Ci sono tanti modi per fare impresa, se hai un modello che tende a massimizzare l’oggi e senza guardare al futuro, non avrai un modello ecologico”.

Ma soprattutto un modello basato sul coinvolgimento degli imprenditori agricoli grazie a risultati incontestabili. “Se coinvolgiamo le aziende agricole in un modello di sviluppo di energia diffusa, avremo molti meno problemi di autorizzazioni”, ha aggiunto Gattoni.

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“Abbiamo un obbligo: capire che l’agricoltura è centrale se vogliamo nei prossimi cinque anni raggiungere gli obiettivi di contenimento del cambiamento climatico”, ha sottolineato il presidente del CIB. “Cosa possiamo fare? Noi abbiamo lavorato con le organizzazioni agricole e quelle dell’industria per cercare di sistemare una misura di intervento spot, quella del PNRR, ma oggi abbiamo poco tempo per chiuderla, Quindi appare necessario mettere in campo nuovi interventi perché questa transizione abbia degli orientamenti e degli orizzonti di medio e lungo periodo”.

Anche la geotermica a bassa entalpia può dare una mano al settore agricolo-forestale in termini di decarbonizzazione e competitività aziendale. A spiegarlo è Marco Orsi, vicepresidente AnigHP “Per le pompe di calore geotermiche c’è una crescita su base europea del 12% con una capacità del mercato di circa 2,3 milioni di unità installate su tutta l’Europa. La predominanza però in questo caso è dei paesi come la Germania, i Paesi Bassi, la Finlandia e la Svezia, quindi paesi del nord, paesi freddi, che pure utilizzano tranquillamente questa tecnologia”.

Il Belpaese potrebbe guadagnarsi un posto in prima fila, soprattutto considerando che vanta un’eccellenza nel mondo delle perforatrici. “Gran parte delle perforatrici che vengono utilizzate per fare questi lavori sono per lo più prodotte in Italia”. Si tratta di “una tecnologia che richiede degli investimenti iniziali più elevati rispetto alle tecnologie tradizionali” ma flessibile e adattabile ai contesti più disparati. Inoltre esistono contesti locali in cui gli enti pubblici tendono una mano alle imprese interessate. E’ il caso della Regione Liguria o della Regione Lazio che “ha adottato delle procedure di finanziamento specialmente per le aziende agricole che possono arrivare a dei massimali compresi tra il 60% e il 75%”.

E c’è già chi è passato alla pratica con risultati che parlano da soli. Nel pieno parco della Paganella, nel Dolomiti del Brenta, ad esempio, è stato realizzato un impianto geotermico a bassa entalpia per riscaldare il rifugio la roda, risparmiando così 5 chilometri di tubature per il gas o cisterne per lo stoccaggio del gasolio. O il caso di Cascina Danese, azienda agricola biodinamica di Acqui Terme, dove l’energia termica – caldo e freddo – fornita dalla geotermia viene utilizzata per la produzione del vino. O ancora in Toscana, a Volterra dove una cantina vinicola ha fatto realizzare un impianto geotermico a bassa entalpia da 130 kW per la climatizzazione degli edifici e la fornitura di energia al processo produttivo.

Quello che non deve mai mancare è uno sguardo d’insieme e a fornirlo ​​Franco Cotana, amministratore delegato RSE. “In questo momento di transizione energetico ambientale RSE è davvero molto impegnata, intanto perché ha supportato il ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica nell’elaborazione del PNIEC, il piano integrato energie e clima, che definisce le traiettorie per raggiungere gli obiettivi net zero al 2050”, sottolinea Cotana.

Un impegno che non si ferma ma che al contrario si fa sempre più inteso, seguendo una precisa indicazione: basarsi “sul pragmatismo e sulla possibilità di utilizzare tutte quelle che sono le risorse che possiamo mettere in campo come Italia […] senza un approccio ideologico. Ecco noi stiamo cercando di far capire come avere un approccio pragmatico e partire proprio da quella che è la disponibilità dei territori nel contribuire a questa transizione”.

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Per farlo abbiamo bisogno delle tecnologie e non tutte sono ancora completamente sviluppate. Per questo RSE sta mettendo a punto dei bandi per supportare il MASE sul comparto delle tecnologie per portarle da un TRL – la prontezza tecnologica – dal livello di sviluppo fino a quello della commercializzazione. “Una grande potenzialità su cui stiamo lavorando è quella di produrre idrogeno a basso costo utilizzando anche la biomassa solida proveniente dalla lavorazione del legno. Noi abbiamo un patrimonio forestale enorme, 12 milioni di ettari, sottoutilizzato, non utilizzato, addirittura molto spesso abbandonato molto spesso che crea problemi di sesto idrogeologico e di incendi sempre più frequenti”. La strada giusta è quella di continuare a investire su un insieme complementare di tecnologie e di politiche strategiche che possano unire diversi obiettivi insieme.



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