Papa Francesco benedice un bambino durante un’udienza in piazza san Pietro – Vatican Media/Ag.Siciliani
Nella teologia islamica i due principali appellativi di Allah – clemente e misericordioso – con i quali iniziano le “sure” del Corano hanno in comune una radice che fa riferimento alle viscere materne. Mi spiegava qualche giorno fa l’imam della moschea di Roma, Nader Akkad, che la realtà della maternità ben si presta a essere associata con la misericordia divina, perché una gestante accoglie la nuova vita nel proprio corpo senza sapere se il figlio che nascerà sarà buono o cattivo, rispettoso o ingrato, intelligente o sciocco… E così la gravidanza viene usata come immagine dell’infinita misericordia di Dio verso i suoi figli, così come ciascuno è.
Questa similitudine ben si presta a parlare anche del “Dio della speranza”, perché ogni mamma, mentre accoglie nel grembo una vita del tutto indeterminata, al tempo stesso nutre per essa desideri infiniti, che riversano sul nascituro – e poi sul neonato e sul bambino – grandi aspettative di bene e di felicità. Non solo: nessun genitore si limita al piano dei sogni, ma sin da subito, appena sa di attendere una nuova vita, inizia a mettere in atto quei comportamenti che potrebbero favorirne la realizzazione.
Una volta si trattava di semplici attenzioni provenienti dalla tradizione, oggi ci si avvale delle conoscenze della medicina, della pedagogia e della psicologia; l’intenzione è però la medesima: proprio perché si nutrono speranze, è necessario cominciare a renderle vere da subito, facendo quanto è possibile perché le potenzialità presenti nella nuova vita si traducano in realtà.
La trasmissione della vita, pertanto, sia nella generazione biologica che nell’educazione, è un colossale segno di speranza, poiché sbilancia decisamente verso il futuro l’esistenza di tutti i soggetti coinvolti: dei genitori, della famiglia, della comunità e della società. Il misto di ideali e di investimenti che ogni nuova vita mette in moto appare come l’incarnazione più tangibile della speranza.
È sorprendente come essa si rinnovi con immutato entusiasmo nonostante l’umanità offra un vasto campionario di esiti deludenti. Eppure nel cuore degli adulti si cela una riserva di speranza che è più forte dell’evidenza delle fatiche, dei rischi e delle difficoltà che il generare comporta. L’entusiasmo di trasmettere la vita sopravvive con una tenacia che non può non stupire.
Il calo delle nascite, di converso, può essere letto, prima ancora che come conseguenza di problemi strutturali (economici, abitativi, logistici…), come esito dell’affievolirsi della speranza, della perdita di entusiasmo dinanzi all’avventura della trasmissione della vita. Lo nota papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, dove la denatalità è indicata – insieme al crescere dei conflitti armati – come principale segno della crisi di speranza che attanaglia il mondo, a partire da alcune società tra le più progredite.
Ci sono luoghi e situazioni, infatti, dove sarebbe assai ragionevole evitare di mettere al mondo dei figli, nei quali invece la trasmissione della vita gode di grandissima considerazione; altrove, invece, non sono sufficienti le generali condizioni di prosperità e di garanzia per collocare la generatività tra le priorità delle giovani coppie e della società intera. Si registra una drammatica «perdita del desiderio di trasmettere la vita».
La questione non è affatto privata, come è ormai divenuto evidente, non solo perché la denatalità pone forti ipoteche sullo sviluppo economico e la tenuta sociale dei Paesi ricchi, ma anche perché l’affievolirsi di questo segno di speranza è insieme sintomo e causa del calo di fiducia nel futuro e della disponibilità ad assumersi rischi e responsabilità per assicurare a sé e agli altri un domani migliore. Due elementi poco quantificabili, ma del tutto essenziali per l’esistenza di una collettività in grado di sopravvivere e prosperare.
Il Giubileo, quindi, sollecita la comunità cristiana a promuovere «un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo»; le chiede inoltre un’azione per «recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti».
Accogliere la vita, servire la vita, sostenere la natalità, investire sulle nuove generazioni, far loro posto nella società, fare sacrifici per lasciare loro un mondo migliore… sono tratti necessari nel pellegrinaggio della speranza che il Giubileo ci invita a intraprendere. Non perché il raggiungimento dell’ideale sia in nostro potere ma perché l’unico modo per rendere vere le promesse è quello di iniziare a praticarle, per quanto è possibile, giorno dopo giorno, passo dopo passo. Con l’unica certezza che esiste una meta che vale la fatica del cammino, e che in questo percorso il “divin pellegrino” e sempre accanto a noi.
Arcivescovo di Lucca
Presidente della Commissione episcopale per la Famiglia, i Giovani e la Vita
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