La nuova sporca corsa all’oro

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Tra i grattacieli delle Jumeirah Lake Towers di Dubai, una delle decine di zone franche della città, spicca la Gold Tower, un palazzo di 37 piani rivestito di vetro dorato. Non si tratta del capriccio di un emiro, ma di marketing: all’interno della torre hanno sede numerose società legate al commercio dell’oro. L’Emirato, infatti, è diventata il secondo hub mondiale, superando Londra, per il commercio del metallo prezioso, di cui oggi il 29 per cento passa proprio per la metropoli del Golfo. Solo nel 2024, il giro d’affari degli Emirati legato all’oro è cresciuto di oltre un terzo, sfiorando i 130 miliardi di dollari. Una cifra da capogiro, figlia anche dell’impennata del prezzo del metallo prezioso, che lo scorso luglio ha toccato il record di 2.483,73 dollari l’oncia (circa 88 dollari al grammo). A far schizzare in alto le quotazioni sono stati gli acquisti delle banche centrali, l’aumento della domanda in Cina, le tensioni geopolitiche e le aspettative di allentamento monetario degli Stati Uniti. Questo fiorente mercato ha però una controindicazione: stimolare il traffico illegale della risorsa preziosa per definizione. E proprio all’ombra dei grattacieli di Dubai si nasconde uno degli snodi nevralgici di questo business oscuro.

Approfittando delle normative agili delle zone franche, volute per attrarre investimenti esteri, organizzazioni criminali e regimi stranieri hanno impiantato lucrose operazioni di contrabbando e riciclaggio d’oro, proveniente in gran parte dalle miniere africane. Il regno arabo assorbe oggi metà della produzione da quel continente. Questa, però, include, accanto all’estrazione legale, numerose miniere artigianali, da cui ogni anno viene ricavato – ed esportato clandestinamente – metallo per un valore di circa 35 miliardi di dollari, un traffico di cui l’80 per cento fluisce proprio tra i ricchi palazzi affacciati sul Golfo Persico. Lì, la polvere o la pasta d’oro, i formati preferiti dai trafficanti, vengono fusi, talvolta «tagliati» con altra materia legale, acquistando una nuova provenienza, immacolata e secondo la legge.Il traffico illecito non solo arricchisce soggetti pericolosi, ma è anche segnato da sangue e veleni. Le miniere d’oro clandestine, presenti soprattutto in Africa e Sudamerica, sono in primo luogo siti di sfruttamento di persone poverissime, spesso vittime di tratta. L’Unodc, l’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e del crimine, ha stimato, per esempio, che nella regione amazzonica del Brasile quasi il 40 per cento dei minatori sia costretto a lavorare in effettive condizioni di schiavitù. Inoltre, nelle baraccopoli intorno ai siti estrattivi e nelle città vicine, le organizzazioni criminali gestiscono diffusi racket di prostituzione. Per esempio in Perù, a La Rinconada, centro minerario di questo tipo, si stima che le sole ragazze minorenni costrette a forme estreme di prostituzione siano diverse migliaia.Ai danni sociali si aggiungono quelli per l’ambiente. Oltre al disboscamento di decine di migliaia di ettari di foresta pluviale e tropicale, i siti estrattivi sono contaminati dal mercurio, altamente tossico, usato per separare l’oro dal minerale grezzo. Negli ultimi trent’anni, sono state scaricate 2.300 tonnellate di questo metallo nel Rio delle Amazzoni e in altri fiumi sudamericani quali l’Orinoco. L’impatto sugli ecosistemi, e di conseguenza sulla salute umana, è devastante: tra gli indigeni Yanomami del Brasile, che vivono in una delle regioni maggiormente colpite, un bambino su due è oggi affetto da deficit cognitivi causati dall’avvelenamento da mercurio.

A questo conto già salato si aggiungono le guerre di cui l’oro è simultaneamente obiettivo e motore. In Africa, a padroneggiare questo aspetto del traffico è stato il Gruppo Wagner del defunto oligarca russo Evgenij Prigožin, ora assorbito negli Africa Corps agli ordini diretti del Cremlino. In poco meno di due anni, dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina alla fine del 2023, i mercenari hanno riciclato 2,5 miliardi di dollari provenienti dall’estrazione d’oro in Mali, Repubblica Centrafricana e Sudan. Tre Paesi della fascia saheliana accomunati da conflitti drammatici, tuttora in corso, dove la Wagner ha stretto accordi con i governi locali, offrendo i suoi servizi in cambio di lauti compensi, pagati principalmente con lo sfruttamento delle miniere. Mentre la giunta militare maliana ha preferito occuparsi direttamente del traffico del metallo prezioso e pagare i russi in contanti, nella Repubblica Centrafricana Prigožin era riuscito a ottenere i diritti esclusivi di estrazione nella più grande miniera d’oro del Paese. La popolazione civile, però, ha pagato un prezzo alto per queste alleanze interessate. Come nel villaggio di Moura, dove tre anni fa gli uomini della Wagner e le truppe governative hanno sterminato 500 persone, sospettando che tra di loro si nascondessero dei miliziani ribelli. O ad Abigado, dove a essere presi di mira dai kalashnikov sono stati minatori locali che non volevano abbandonare il sito minerario passato nelle mani dei russi, i quali non hanno esitato a uccidere almeno settanta persone.

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È in Sudan, però, che le operazioni dei mercenari bianchi si sono maggiormente consolidate: arrivata nel 2017 su invito dell’allora presidente Omar al-Bashir, la Wagner ha creato una società di facciata, la Meroe Gold, e ha aperto un impianto di raffinazione dell’oro, stringendo poi un’alleanza redditizia con il più grande trafficante del Paese africano: il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, comandante delle Rapid Support Forces, potente formazione paramilitare nata dalle ceneri dei janjaweed, responsabili del genocidio nel territorio del Darfur. Grazie anche all’appoggio russo, pagato con i proventi delle miniere, due anni fa Dagalo ha potuto dichiarare guerra al suo ex alleato, il generale Abdel Fattah al-Burhan, comandante della giunta militare al potere dopo la cacciata di al-Bashir nel 2019. Il nuovo conflitto civile sudanese ha già causato almeno 60 mila morti, secondo stime prudenti, e costretto oltre due milioni di profughi alla fuga, senza che si vedano all’orizzonte una possibile tregua o la fine degli scontri. È la guerra più sanguinosa oggi negata.

Con la fame d’oro globale in continua crescita e i profitti sempre più alti, è difficile pensare che, nonostante i tremendi costi, il traffico illegale possa fermarsi. Basta guardare all’India, uno dei maggiori importatori al mondo, che ogni anno assorbe circa mille tonnellate d’oro: quasi un quarto di questo volume entra irregolarmente nel Paese, nascosto in doppi fondi o trasportato da muli come gioielli e statuine. Le alte tariffe all’importazione imposte dal governo non bastano a scoraggiare gli acquirenti indiani, che lo considerano un investimento sicuro e il miglior dono di nozze. A ogni matrimonio circolano in media dai due ai tre chili d’oro – ovviamente non equamente distribuiti tra ricchi e poveri.

Anche in Occidente, visti i tempi incerti, chi può investe in oro come bene rifugio. «Nel contesto attuale, con l’euro che perde terreno sul dollaro e con la crisi dell’economia tedesca, a cui è legata a doppio filo la nostra, ritengo che ci sarà una nuova spinta anche in Italia all’acquisto dell’oro, tipicamente un bene rifugio. Ma a beneficiarne saranno le fasce sociali ad alto reddito, mentre chi si troverà in ristrettezze economiche sarà anzi spinto dalle circostanze a vendere quel poco che può ancora possedere» spiega Mauro Gallegati, professore di Economia presso l’Università politecnica delle Marche. Nonostante lo scenario favorevole per i trafficanti, una tiepida speranza arriva da un maggiore impegno delle autorità nazionali e internazionali. Il contrasto del crimine organizzato in questo campo non è rinviabile, visto che, per esempio, in Colombia e Perù i cartelli della droga ricavano maggiori introiti dall’oro che dalla cocaina. Persino il governo emiratino, deciso a contrastare le attività illecite legate al metallo prezioso a Dubai, pare si stia muovendo: lo scorso ottobre ha sospeso, almeno temporaneamente, le attività di oltre trenta laboratori di raffinazione dell’oro, sospettati di essere coinvolte in affari sporchi. Forse il primo passo di un cammino che sarebbe molto lungo.





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