Opinioni | Giustizia, la riforma e i tempi cambiati

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#finsubito

Conto e carta

difficile da pignorare

 


Comprensibile. Se per decenni hai potuto constatare che facendo la voce grossa sei sempre riuscito a bloccare le iniziative a te sgradite, forse cadrai in una trappola, sottovaluterai i cambiamenti intervenuti e non riterrai pertanto di dover mutare strategia: continuerai a fare la voce grossa. Col risultato di andare incontro a una secca e dura sconfitta. È possibile che i vertici della magistratura si accorgano ben presto che, di fronte alla riforma voluta dall’esecutivo della separazione delle carriere, scegliere di andare allo scontro frontale con la maggioranza di governo sia stato un errore (tattico e strategico insieme).
Ci sono due ragioni per le quali il governo ha buone probabilità di uscire vincitore nel braccio di ferro ingaggiato con i vertici della magistratura. La prima riguarda il grado di compattezza/coesione della coalizione di governo nel difendere la riforma. La seconda ragione ha a che fare con la natura di tale progetto.

Perché delle tre riforme istituzionali proposte dal governo Meloni (premierato, autonomia differenziata, separazione delle carriere) l’ultima ha buone chance di vedere davvero la luce e le prime due no? Come mai il premierato è già ora su un binario morto? Come mai l’autonomia differenziata può facilmente fare la stessa fine? Come mai, invece, la separazione delle carriere è l’unica riforma, diciamo così, in salute?




















































Conto e carta

difficile da pignorare

 

Sul premierato si è visto e capito tutto: il governo non era in grado di fare una proposta solida e coerente (cosa, almeno in teoria, possibile). Non era in grado perché nella maggioranza c’erano aspre divisioni. Divisioni che hanno impedito alla proposta del premierato di decollare. Nemmeno l’autonomia differenziata versa in buone condizioni. Anche in questo caso ci sono divisioni nella maggioranza. I rappresentanti meridionali della destra chiedono cambiamenti. Pesa il timore che la riforma, se varata, possa favorire rovesci elettorali, in particolare nel Sud. È difficile che Fratelli d’Italia voglia regalare ai 5 Stelle (il partito di opposizione che, nel Mezzogiorno, ha la maggiore capacità di attrazione) un piatto così sostanzioso.

La separazione delle carriere è tutt’altra cosa. Qui non ci sono divisioni di fondo. La maggioranza è compatta nella difesa della riforma. Ed è precisamente a causa di questa circostanza che, forse per la prima volta da trent’anni a questa parte, i rapporti di forza fra politica e magistratura sono cambiati. Un tempo, ai vertici della magistratura era sufficiente alzare la voce perché le maggioranze si ritrovassero paralizzate dai dissensi interni. Ora non più. La coesione della maggioranza è un muro che non può essere facilmente abbattuto.

La seconda ragione per cui la separazione delle carriere sembra avere il vento in poppa ha a che fare con la natura della riforma. Contro il premierato era ed è possibile ricorrere ad armi retoriche collaudate: l’uomo solo al comando, le «pulsioni autoritarie» eccetera. Argomenti su cui era ed è possibile fare leva anche a causa dell’origine di Fratelli d’Italia, del fatto che si tratta di una formazione politica post-missina. Anche sull’autonomia differenziata — sia pure cercando di nascondere sotto il tappeto che la riforma del Titolo quinto fu voluta dal Pd — era ed è possibile imbastire una contro-propaganda elettoralmente efficace: vogliono dividere l’Italia, vogliono penalizzare il Mezzogiorno, eccetera. 

Sulla separazione delle carriere fare opposizione è molto più difficile. Per esempio, come si fa a «vendere» agli altri europei che si tratta di una riforma «autoritaria» se la separazione delle carriere esiste (tranne che in Italia e in Francia) dappertutto? O si va a spiegare agli europei che nei loro Paesi, ove vige la separazione, c’è l’autoritarismo oppure è difficile impostare la battaglia su queste basi. Tanto più che mentre nel caso di Berlusconi, anche lui un fautore della separazione delle carriere, si poteva sempre tirare fuori il conflitto d’interesse, con Giorgia Meloni (e con Nordio) non si può. Per non parlare del fatto che anche a sinistra non sono pochi i favorevoli alla separazione delle carriere: al momento nuotano sott’acqua o sono rannicchiati e nascosti dietro un cespuglio, ma ci sono.

Il punto è che la separazione delle carriere è ispirata a un principio squisitamente liberale. È l’attuale assetto della magistratura a violare quel principio. Anche la tesi secondo cui l’esito sarebbe il controllo politico sui pubblici ministeri è assai debole: è precisamente nell’altro Paese in cui vige l’unità delle carriere (la Francia) che c’è sempre stato quel controllo. Ciò dimostra che fra separazione e controllo dei pm non c’è alcuna necessaria relazione. E non insistiamo troppo, per carità di patria, sul folklore: Licio Gelli voleva la separazione delle carriere? Anche, guarda un po’, Giovanni Falcone. Non risulta che fosse iscritto alla P2.

Se avessero capito in tempo (si perdoni il bisticcio) che i tempi sono cambiati, i vertici della magistratura avrebbero dovuto evitare lo scontro frontale, avrebbero dovuto puntare su una strategia meno rozza, più raffinata: avrebbero dovuto attivare tutti i canali possibili per trattare con il governo, per negoziare, al fine di strappare qualche concessione. Scontro frontale uguale sconfitta totale. La storia ci offre una infinità di esempi. A forza di accumulare vittorie si finisce per considerarsi invincibili. Si perde il senso della realtà. Il finale è già scritto.

3 febbraio 2025

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