Spese militari, la vittoria di Giorgia Meloni in Ue e il silenzio del governo: «La vera svolta arriverà col debito comune»

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La premier ottiene da Ursula von der Leyen l’impegno a scorporare le spese per la difesa dal Patto di Stabilità. Ma nessuno rivendica il risultato. Il rischio di fare nuovo debito e la trattativa sulle nuove risorse

«Per tempi straordinari ci vogliono strumenti straordinari, e credo che stiamo vivendo tempi straordinari». Quando Ursula von der Leyen s’è presentata in conferenza stampa lunedì sera – al suo fianco anche il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa e il premier polacco Donald Tusk – era ormai tarda sera. Il Consiglio europeo “informale” di lunedì era stato un lungo tour de force – tra dazi e difesa, scambi a 27 ed allargati al segretario generale della Nato Mark Rutte e al premier britannico Keir Starmer. Eppure era difficile non cogliere il salto in avanti di von der Leyen sul tema delle spese per la difesa. «Abbiamo bisogno di investimenti pubblici per rafforzare la nostra base industriale nel settore della difesa e sono disposta ad esplorare la piena flessibilità prevista dal Patto di Stabilità», ha scandito in conferenza stampa la presidente della Commissione Ue. Flessibilità che «libererà spazio fiscale aggiuntivo nei bilanci degli Stati membri». E nel dubbio che quelle frasi pronunciate alle 11 di sera fossero andate perse, la Commissione ha fatto ribadire oggi il concetto dal suo portavoce “in pieno giorno”: «Useremo l’intera gamma di flessibilità che abbiamo nel nuovo Patto di stabilità e crescita». È esattamente l’obiettivo per cui si batteva da mesi il governo Meloni – o per le meno uno dei principali: liberare dalla “gabbia” del nuovo Patto di stabilità le spese per la difesa. Diversamente, è il ragionamento su cui hanno martellato per mesi Meloni, Crosetto e Giorgetti, come è possibile per i Paesi meno attrezzati fare quel salto verso il 2, se non 3 o addirittura 5% del Pil in difesa predicato giorno e notte dagli stessi leader Ue e Nato, e con le sue note “maniere spicce” ora pure dal presidente Usa Trump?

Il silenzio di Meloni e Crosetto

Eppure, paradossale per quanto sia, dal governo né ieri né oggi è piovuto un solo commento sulla vicenda. Nessuna rivendicazione del risultato ottenuto, nessuna ricostruzione ad uso italiano, nessuna ulteriore spinta sullo spiraglio aperto da von der Leyen. Meloni da Bruxelles non ha proferito verbo, è rientrata a Roma questa mattina sui suoi social ha preferito commentare l’inchiesta di Salerno sul business dei permessi di soggiorno. Non pervenuti sul tema neppure il titolare della Difesa Guido Crosetto o quello degli Esteri Antonio Tajani. Difficile pensare sia un caso. Alle richieste di Open, da FdI è Giangiacomo Calovini, deputato della Commissione Esteri, a riconoscere quasi con «pudore» il punto segnato dalla premier a Bruxelles: «Quanto emerso ieri con le possibilità di deroga al Patto sulle spese per la difesa va incontro alle rivendicazioni di Meloni e Crosetto negli ultimi 2 anni. Purtroppo il contesto geopolitico è mutato: non possiamo più campare con l’ombrello di sicurezza Usa, Putin ci minaccia e il Medio Oriente è la polveriera che sappiamo. Senza per questo togliere risorse alla scuola o alla sanità», spiega Calovini, quasi in uno sforzo di “giustificare” la battaglia europea che l’Italia sta conducendo.

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«È una battaglia sacrosanta, eppure si rendono conto che è impopolare. Come spiegare ai cittadini, ai giovani in particolare, che i nuovi spazi di manovra che il governo si batte per ottenere vanno usati per compare miliardi e miliardi di armamenti?», spiega a Open una fonte a conoscenza dei dossier di governo. D’altra parte è vero che il successo di Meloni sulle spese per la difesa resta per ora parziale. Un po’ perché agli annunci della Commissione dovranno far fronte nei prossimi mesi i fatti – e Costa e von der Leyen hanno detto chiaramente come quelle di ieri siano state «riflessioni», mentre le decisioni vere arriveranno al vertice di giugno. Un po’ perché se sullo spazio di manovra per le spese nazionali pare essersi aperta una breccia sul tema di nuove risorse comuni non sembra che i capi di Stato e di governo abbiano trovato ieri l’intesa. L’elefante nella stanza, come noto, è l’idea di emettere debito comune – sul modelli di quanto fatto dopo la pandemia col Next Generation EU – per creare “risorse fresche” per gli investimenti in difesa. Dai Paesi scandinavi a quelli baltici, nelle ultime settimane di fronte allo stringersi della “tenaglia” Trump-Putin molte resistenze stanno cadendo. Ma altre restano. «Non c’è prospettiva di fare debito comune», ha ribadito ieri sera lasciando il vertice il Cancelliere tedesco Olaf Scholz.

La grande trattativa sul debito comune

Eppure «la strada del debito pubblico europeo è inevitabile», argomenta a Open Domenico Moro, responsabile Sicurezza e Difesa del Centro Studi sul Federalismo. Per la semplice ragione che per gli investimenti colossali di cui c’è bisogno nel comparto – come descritto da Mario Draghi nell’ordine di centinaia di miliardi – non bastano gli spazi di manovra nazionale. Servono capacità comuni, e risorse fresche. E oltretutto se è vero che sugli investimenti nazionali ora la Commissione potrebbe chiudere a un occhio, resta il fatto che questi contribuiranno comunque a far lievitare i livelli di debito pubblico dei rispettivi Paesi. E non è detto che mercati e agenzie di rating saranno altrettanto benevoli. Anche per questo, forse, il governo Meloni incassa il punto segnato a Bruxelles, ma tace.



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