Smetteremo mai di chiederci di cosa parla “Re Lear”?

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Di cosa parla il Re Lear? Smetteremo mai di chiedercelo? Dopotutto, a voler contare tutte le riscritture, le rielaborazioni e riattualizzazioni esistenti dei testi scespiriani sospetto che Lear lo troveremmo molto in alto nella classifica dei riattualizzati, se non addirittura sul podio. E quindi: di cosa parla? Perché, con cadenza quasi ciclica, Lear torna, ci torna in mente?

E perché, sin dal nostro primo incontro, torna così spesso in mente anche a me?

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Possiamo leggere Lear per quello che ci dice sullo smarrimento e la solitudine della vecchiaia, una vecchiaia tutta maschile e in fragoroso disarmo, oppure possiamo andare in un’altra direzione e trovarvi rappresentati i problemi del potere – la trasmissione del potere e gli scontri che ne derivano, il conflitto tra le generazioni (negli ultimi anni direi che questa lettura si porta moltissimo: basti pensare a Succession). Ai miei occhi è sempre sembrato evidente che il Re Lear parlasse di famiglie, ma appunto ci si può vedere un po’ quel che si vuole, in un vero e proprio esercizio di pareidolia tematica, e nel farlo si resta sempre un po’ inappagati perché Lear è, io credo, di tutto il teatro di Shakespeare il testo più frustrante, quello che più ti costringe a immaginare una possibile backstory che spieghi ciò a cui stai assistendo. È quello che più ti fa venire voglia di colmare i vuoti, scioglierne le incongruità, normalizzare. Per dirla come Adam Phillips, psicoanalista e scrittore che a Lear ha dedicato pagine interessantissime, è la storia assai frustrante di quel che succede a un tiranno quando viene frustrato nei suoi desideri.

Una storia così frustrante che per un secolo e mezzo fu portata in scena con un diverso finale, un lieto fine, quello rimaneggiato da Nahum Tate nel 1681.

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Io stessa ho incontrato Lear per la prima volta attraverso il tramite di una riscrittura. Avevo nove o dieci anni, mi regalarono I Racconti da Shakespeare, meraviglioso adattamento per bambini scritto nel 1807 dai fratelli Charles e Mary Lamb. Sfogliavo il Re Lear raccontato da Charles Lamb e leggevo di una famiglia. Soprattutto leggevo di figlie, figlie femmine. Figlie come me. E quello che diceva o lasciava intendere in proposito era più interessante ai miei occhi, più cupo, intrigante e vero di quello che, per restare in tema, trovavo nel rapporto tra Prospero e quella fastidiosa pupazza che è Miranda nella Tempesta.

A quel punto era forse inevitabile che un giorno finissi anche io per ingrossare le fila dei frustrati del Re Lear. Anzi, senza forse. Per tutta la vita l’ho odiato. Non il dramma ma Lear, il re in persona. Sovrano sì, ma dalle credenziali inverificabili, padre orrendo, vecchio pazzo maledetto che nemmeno in punto di morte, nemmeno davanti al cadavere di una figlia uccisa per causa sua è capace di pentirsi, incolpa tutti tranne sé stesso.

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Un altro motivo di frustrazione era per me il constatare quanto fosse stato avaro Shakespeare con le figlie del re. Proprio lui, che ci ha regalato così tanti personaggi femminili vitali, dinamici, pieni di cose da dire. Le figlie di Lear invece parlano pochissimo. Cordelia è quasi sempre fuori scena, Goneril e Regan non hanno monologhi, le parole pronunciate da ciascuna a sommarle tutte compongono a malapena il sedici per cento del testo (sì, qualcuno le ha contate).

Che ingiustizia, pensavo, ma anche: che occasione persa. Tre figlie mi sembravano il dispositivo perfetto per sciogliere tante ambivalenze, quando hai tre figlie per le mani puoi raccontare tutti i modi contraddittori in cui si è, appunto, figlie, figlie di padri. Puoi scomporre questo primo e molto complicato amore, farne vedere tutti i colori come attraverso un prisma.

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Un’altra cosa che secondo me non si dice abbastanza è che il Re Lear parla di bugie. Comincia dopotutto proprio così, con un padre che cerca l’adulazione ed è certo di ottenerla, è abituato a ottenerla. Non è una banale attestazione d’affetto quella che gli interessa, vuole una menzogna. La verità, quella espressa da Cordelia (Amo vostra maestà come m’impone, né più né meno, il vincolo filiale…) non solo non gli basta ma lo fa infuriare. La lettura classica vuole che le due figlie maggiori, Goneril e Regan mentano per avidità, brama di potere, che la loro iperbolica adulazione sia frutto di un calcolo. Questa spiegazione non mi ha mai convinta.

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Le figlie di Lear mentono con prontezza sospetta, la situazione è assurda e loro non fanno una piega. Mentono come chi è abituato a mentire da sempre (come chi ha paura?), come chi è cresciuto sapendo che la famiglia è un teatro e se ci si intestardisce a squarciare il sipario si paga un prezzo. È una morale resa con una tale brutale letteralità che per una volta si potrebbe accusare il Bardo di poca sottigliezza. L’unico che riesce a dire la verità a Lear senza fronzoli o omissioni, dopotutto, è il suo giullare. Per dire la verità occorre essere un/il matto! Un matto o, ovviamente, Cordelia. My fool is dead! Dirà infine Lear stringendo tra le braccia il suo corpo senza vita. La mia matta è morta. Metti qualcuno seduto in ultima fila non avesse ancora colto il nesso.

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In Lear tutti mentono e per i motivi più vari, non mancano nemmeno le bugie pietose dei bravi figli come Edgar, le bugie che rifili a chi ami quando farlo ragionare non è più possibile. Insomma, tutti mentono anche perché saputa la verità, tendenzialmente muoiono.

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Per sfogare la frustrazione, ho scritto un piccolo Lear tutto mio. L’idea all’inizio mi pareva quasi imbarazzante ma non se ne andava, continuava a emanare un suo cocciuto magnetismo. Per scriverlo ho usato quello vero come una cava, ho estratto ciò che mi serviva e ho tolto l’audio a tutto quello che poteva portarmi fuori strada. L’ho riletto ancora e ancora ma in modo diverso da prima, smettendo di setacciarlo alla ricerca delle chiavi di lettura e tenendo solo quello che mi restava appiccicato addosso dei versi, le costellazioni create dalle parole.

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Soprattutto ho cercato di alzare gli occhi dai rompicapi del testo per aprirmi alle intuizioni a volte magnifiche di chi l’ha portato in scena. Avevo bisogno di una famiglia qualunque, di questo ero certa. Ogni famiglia dopotutto, è un reame in miniatura. E poi le figlie. Renata la freccia, Gabriella e il suo nascondersi in bella vista – e ovviamente Cora, la prediletta. Queste tre donne hanno vissuto a lungo nel mio hard disk, guadagnando nel tempo concretezza, assumendo ciascuna la sua fisionomia e la sua voce. Più le vedevo per le persone individuate e grandemente fallate che erano e più sapevo di poterne scrivere, ma mi mancava un ultimo tassello. È stato solo quando ho “capito” che Cora non era, come avevo pensato fino a quel momento, una figlia nata magari da una seconda unione, una figlia più amata come spesso succede, bensì una giovane moglie che la miccia si è accesa, la materia si è fatta incandescente e il racconto poteva, anzi doveva, cominciare.

La verità quando arriva è una tempesta Flavia GasperettiLa verità quando arriva è una tempesta Flavia Gasperetti

L’AUTRICELa verità quando arriva è una tempesta (Bompiani), un retelling letterario del Re Lear, segna il debutto narrativo di Flavia Gasperetti. L’autrice, dottore di ricerca in storia contemporanea, lavora come traduttrice editoriale di narrativa e saggistica, ma anche come traduttrice tecnica nei campi della comunicazione e dell’informazione. Gasperetti, tra l’altro, ha partecipato ad antologie come Quello che hai amato (Utet, 2015, a cura di Violetta Bellocchio), e I figli che non voglio (Mondadori, 2022, a cura di Simonetta Sciandivasci), e ha pubblicato un saggio con Marsilio nel 2020: Madri e no. Ragioni e percorsi di non maternità.

Veniamo al suo romanzo, che conferma come ogni famiglia sia un “reame in miniatura”: Renata e Gabriella lo sanno meglio di tutti, perché il loro padre, Learco, è sempre stato un sovrano assoluto: architetto di successo, uomo di enorme fascino, con i suoi umori e i suoi mutevoli amori le ha rese le donne che sono oggi, ricche eppure fragili e poco felici. Ma loro di lui hanno sempre accettato tutto, anche Cora, la nuova, giovanissima moglie per cui ha perso la testa e che sembra avergli regalato una nuova giovinezza. Ma a mescolare le carte arriva una prima tempesta: un’ischemia che trasforma Learco in un anziano bisognoso di cure. Renata e Gabriella si trovano improvvisamente a dover organizzare l’assistenza a un padre malato, e proprio in questo frangente Cora fa perdere ogni traccia di sé. Quella di Learco è un’abdicazione progressiva che porta alla luce conflitti latenti e pone a ciascuno la domanda che ha sempre evitato di porsi: ma è anche capace di rivelare nuove, sorprendenti complicità…

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