Aga Khan, l’ultimo visionario della Sardegna

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Ricorderò quel volo per tutta la vita. Un Piper di “cartone” sospeso tra lo stagno di Santa Gilla e l’esclusiva Cala di Volpe. La Costa Smeralda, fiscalmente, non era già più sua, ma nessuno si era mai sognato di sottrargli lo scettro del Principe. Quando il commodoro, regista di terra e di mare in quel porto da almeno quarant’anni celebre nel mondo, fece squillare il telefono di Villa Devoto non si attardò in lunghi convenevoli: le passo Sua Altezza il Principe Karim Aga Khan. La mattina nel calendario gregoriano era quella del 9 aprile del 2003.

Il Patriarca

Il tatto era quello di un Principe, la fermezza quella di un patriarca. Non mi lasciò molte alternative: domani mattina è indispensabile la sua presenza a Porto Cervo. Non cedette nemmeno un attimo ad una possibile defezione legata ai fuochi d’artificio della finanziaria regionale in discussione nel Parlamento sardo. Usò l’aplomb del Principe, ma non tralasciò la soffusa minaccia dell’incidente diplomatico. Ci saranno autorità straniere, di primo piano internazionale. La presenza del Presidente della Regione è inderogabile, suggeriva con l’impeto del dovere.

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Isola Stato

Aggiungendo e sottolineando: Regione “Autonoma”, come se avesse la percezione di trovarsi in un’Isola-Stato, quasi indipendente, a mezzadria tra la Repubblica italiana e quella Ismaelita. Fu lui a suggerirmi un piccolo “volatile” di cartone per trasvolare l’Isola dall’estremo sud alla meta smeraldina in tempo utile per salvaguardare i voti in Consiglio regionale e onorare gli ospiti di Stato in terra sarda. Quando mi presentai sulla pista 14 dell’aeroporto di Elmas, però, la certezza di quel volo non era granitica, non foss’altro per il sottile “sogghignare” dei controllori di terra. Il cielo in laguna, del resto, era agitato come non mai, con raffiche che sembravano coltelli ad ogni altitudine.

Missione

Tra il restare a terra e decollare riecheggiava come un mantra quella voce gentile che invoca il dovere della missione in terra “smeralda”. Alla cloche, anziché un pilota con tanto di galloni di volo e divisa d’ordinanza, c’è un “armatore” di Piper. Occhialini penzolanti, italiano incerto, slang corsicano, come si conviene all’ultimo viaggio. La frase fu celebre, rivolta al temerario passeggero fattosi scettico anche nei tratti somatici: non si preoccupi, sembra leggero, ma non cade. La traversata fu un pò come sorvolare il paradiso, passando per le pene dell’inferno, una sorta di parapendio a motore tra su Gorroppu e Cala Luna. L’atterraggio al “Costa Smeralda”, dirimpettaio del primo scalo di Vena Fiorita, fu morbido come una rovinosa caduta dal balcone del primo piano.

Caput mundi

Aveva pensato a tutto, il Principe, compreso all’elicottero per raggiungere l’ultimo suo eremo dove la sovranità era totale, patrimoniale e sentimentale: il mitico Yacht Club Costa Smeralda. Quando mi si staglia davanti, vestito di bianco, come nelle iconiche immagini del suo primo sbarco in terra sarda, non risparmia un supplemento di cortesia: capisco il sacrificio, ma la “nostra” Sardegna se lo merita. Tutto, per lui, sovrano ismaelita in terra promessa, ruotava intorno a quell’Isola che quarant’anni prima aveva “scoperto” vergine e intonsa, perla inesplorata nel cuore del Mediterraneo. Senza averla mai vista ne aveva comprato un fazzoletto, tra lentischi, graniti e capre. Acquisto al buio.

Sguardo lungo

Gli bastò uno sguardo alla cartina geografica, affidandosi ad un’innata percezione per affari e paradisi. Non me lo disse mai espressamente, ma le contrazioni del volto erano più eloquenti di qualsiasi frase sussurrata: se avesse potuto, senza golpe, senza spargimento di sangue, la Sardegna l’avrebbe immaginata Stato sovrano, capace di valorizzare senza orpelli infiniti giacimenti di ricchezza ambientale e paesaggistica, una sorta di paradiso terrestre “indipendente” in mezzo al mare. Lui, il capo carismatico degli ismaeliti nel mondo, per tutti qui, in terra sarda, è sempre stato il Principe Aga Khan Karim. Rispetto e onore conquistato con il tatto del fare e il sorriso della cortesia.

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Isola del vento

L’invito obbligato e senza fronzoli di quella mattina era l’ultimo sussulto pionieristico di una missione estrema: trasformare l’Isola nella capitale mondiale della grande vela, costringendo il gotha mondiale a scegliere la Costa Smeralda come organizzatrice dell’America’s Cup, la Coppa America più ambita. Non un mero traguardo sportivo, ma la “visione” di una terra che non si può fermare a due soli mesi di “vita” all’anno. La tavola è rotonda, rivolta verso la baia di Porto Cervo, ancora deserta. Ci sono tutti quelli che dovevano esserci, secondo i suoi piani: dagli amici ai nemici del suo sogno. C’era Michel Bonnefous, l’uomo di Ernesto Bertarelli, il patron di Alinghi. C’era, soprattutto, Juan Carlos, il sovrano di Spagna, grande velista che sognava la disfida velica tra le isole spagnole, ma non poteva rinnegare l’amicizia con il Principe. Del resto, Karim ha tutte le armi per gestire la partita: affabile, elegante, usa le parole con la flemma di un petalo e la fermezza di un sovrano patriarca. Argomenta, spiega, disegna triangoli di gara e scenari da favola, lui che quel tratto di costa lo ha memorizzato in ogni insenatura più remota. Della Sardegna, lui, non parla, la dipinge.

Senza pale

Immagina l’Isola come terra del vento, anche se mai avrebbe pensato di farla trasformare in un paesaggio industriale, violentata da pale eoliche e vili profittatori di incentivi di Stato. Quel vento lo immaginava come volano del grande turismo mondiale, capace di attrarre, fuori stagione, il grande palcoscenico internazionale della vela. Non mi lascia molti margini di manovra. Quando mi cede la parola in quel conciliabolo ristretto i margini per mantenere una minima prudenza istituzionale sono ridotti a lumicino: la Sardegna si candida ad ospitare la Coppa America, la Regione sarda farà tutto quello che è necessario per organizzare questo evento mondiale nei tempi e nei modi che saranno necessari. L’occhio sinistro, in un gesto poco regale, ma esplicito, si stringe in segno di complicità per quell’operazione che avrebbe restituito al suo sogno nuovo lustro e insperate potenzialità. C’è Tom Barrak, il nuovo magnate americano che aveva appena rilevato gli alberghi della Costa Smeralda invocando sintonia e continuità proprio con il “Patriarca” di Porto Cervo. Ci spera, il Principe, ma la partita è complessa. Prima del ritorno al sud, questa volta su quattro stabili ruote, mi congeda con parole eloquenti, rivolte al futuro: «La Sardegna merita di essere al centro del mondo». Fu l’ultima esortazione prima di quel distacco lento dalla sua creatura, l’amarezza dell’incompiuta che ne segnò irrimediabilmente gli anni a venire.

Cuore sardo

Si sentiva sardo, nemmeno tanto acquisito, ma si contorceva dinanzi all’impotenza manifesta di una terra inconsapevole del suo valore. La prima volta che incontrai il Principe era primavera del 1999. Incontro riservatissimo, alla vigilia di una campagna elettorale. Voleva starne lontano, visto il trattamento ricevuto dalla vecchia politica, ma era curioso di sapere e, soprattutto, non aveva perso la speranza di essere compreso. Che qualcuno lo avesse scambiato per palazzinaro in cerca di meri affari immobiliari lo amareggiava non poco, come se non fossero bastati quarant’anni di fatti. L’incontro avvenne nella penombra pomeridiana dello studio rivolto verso il porto, davanti ad un vecchio tecnigrafo, l’antico tavolo da disegno dove aveva dispiegato per anni le tavole architettoniche di Jacques e Savin Couelle, Luigi Vietti, Michele Busiri Vici, sino all’architetto-indipendentista più illuminato Antonio Simon Mossa.

Dipinti

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Non veri e propri disegni tecnici, ma veri e propri dipinti, schizzi d’autore per incastonare “gioielli” in quelle rigide regole che aveva rigorosamente imposto al regolamento edilizio-architettonico di quella che sarebbe stata la Costa Smeralda. Continuava a ripetermelo: l’architettura non si misura in quantità, ma in qualità, la stessa che imponeva ad ogni “opera” da cesellare nel paradiso dorato. L’inflessione poliglotta, quando c’era di mezzo la sua creatura, si infrangeva in parole forti e nitide capaci di scolpire il “sentimento” più profondo che aveva ispirato e animato la più grande “fabbrica” di sogni e di sviluppo della Sardegna moderna.

Paesaggio

Negli anni sessanta, e le carte ne sono la prova certa, ragionava di “impatto paesaggistico”, di salvaguardia ambientale e valorizzazione dell’entroterra sardo. Più che ragionare, ne imponeva uno stile inedito e rigoroso, una firma identitaria indelebile, riconoscibile nel firmamento mondiale. Nel 2002, primi mesi dell’anno, inverno già proteso alla primavera, riprendemmo a discutere: tutti lo chiamavano Master Plan, ma il nome era già una iattura. Gli anni avevano trasformato quel piano di rilancio della Costa Smeralda in un simbolo quasi cementizio su cui adombrare meri affari immobiliari.

Delusione

La politica, le istituzioni, lo avevano profondamente deluso. Riallacciare i fili del dialogo era impresa ardua, ma non impossibile. Lo incontrai ancora una volta nel suo studio da “Principe-architetto”, dove tutto era nato. Fu l’ultima “lectio magistralis”. Non mi parlò mai di metri cubi, mai di volumetrie, ma di un filo rosso che si poteva riallacciare. Il “cruccio” era quell’incompiuta, riferita a questa terra di Sardegna carica di problemi, ma ricca di potenzialità infinite e inesplorate. Fu esplicito e franco, come non mai: quest’Isola può e deve vivere di turismo molto più di tre mesi all’anno, ha un giacimento incredibile che attende di essere valorizzato, servono infrastrutture e strutture in grado di mettere a sistema tutto quello che già abbiamo realizzato.

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Aveva ben chiaro il suo “master plan”, non quello del cemento, ma un piano “visionario” capace di ampliare e moltiplicare la forza attrattiva della Sardegna nel mondo, garantendo più occupazione e più sviluppo. Tre i capisaldi del suo “sogno” incompiuto: grandi eventi sportivi, ai massimi livelli mondiali, da attuarsi nell’arco dell’anno, fuori dalla stagione estiva, per rendere le strutture già esistenti capaci di sviluppare un potenziale molto più ampio; turismo congressuale a cinque stelle, capace di attrarre le più grandi iniziative culturali e scientifiche a livello mondiale, creando in tutte le strutture alberghiere già esistenti ampliamenti funzionali alle attività congressuali ai massimi livelli; infine il benessere dell’anima e del fisico, dai centri benessere a quelli ambientali. In molti non gli hanno dato ascolto. In troppi gli hanno fatto la guerra. Resta il suo pensiero illuminato e visionario: valorizzate e rispettate questa terra-paradiso. La sua lezione ora è scolpita nei cieli.

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