Giustizia, la speranza si chiama comunità

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Una realtà complessa e drammatica, quella del carcere, che però non può essere esclusa dalle nostre vite. Lo ha spiegato bene monsignor Delpini che, richiamando il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, ha ricordato che «visitare i carcerati è un’opera di misericordia, una via verso il Paradiso, una pratica di quell’amore che mette in comunione con Dio». Secondo l’arcivescovo «visitare i carcerati è una testimonianza che anch’essi fanno parte della comunità, che, le loro, non sono vite finite in un mondo a parte, chiuso e inaccessibile». L’essere considerati persone attesta che la comunità debba prendersene cura e farsi carico di loro, al di là di qualsiasi forma di discriminazione e ambiguità che, talvolta, parole come reinserimento, rieducazione, riabilitazione possono generare. «Chi visita il carcerato contribuisce a un sistema che riconosce la dignità della persona e ne favorisce la speranza».

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E proprio il connubio tra diritto e speranza è stato il fil rouge di tutti gli interventi. A partire da quelli dei professori Stefano Solimano e Gianluca Varraso, rispettivamente preside della Facoltà di Giurisprudenza e docente di Diritto processuale penale e di Diritto Penitenziario, referente di Ateneo per la Convenzione per la promozione dello sviluppo culturale e la formazione universitaria dei detenuti. Una costruzione della speranza invocata da tutti i relatori e resa sempre più necessaria – considerati i numeri di suicidi in carcere, 83 nel 2024, di cui 47 italiani e 36 stranieri, senza contare i casi dubbi – e a cui le inedite logiche della giustizia riparativa, introdotte dalla recente riforma Cartabia, possono dare un contributo. A chiamarle in causa è stato Gabrio Forti, docente emerito di Diritto penale, accademico dei Lincei, soffermandosi sulle condizioni ostative della speranza nell’ambito della giustizia penale. In particolare, il docente, cui va il merito di aver promosso in Cattolica l’insegnamento di Diritto penitenziario, ha tracciato il drammatico contesto in cui si trovano a operare i magistrati, contesto ulteriormente aggravato da due fattori: l’ipertrofia legislativa e l’euforia dei diritti fondamentali. «La giustizia si colloca oggi tra burocratizzazione del decidere, eccesso pretenzioso di porre al centro i propri diritti, egemonia del digitale». Una via alternativa alla «logica sacrificale» che continua a inquinare il nostro modo di vedere il mondo, potrebbe essere proprio la giustizia riparativa il cui potere trasformativo si fonda sull’idea che «l’uomo non è nulla senza l’altro».

Di questo è convinta anche Giovanna Di Rosa, presidente della Corte d’Appello di Brescia, alumna della Cattolica, che, avvalendosi di sentenze della Corte europea e della Corte Costituzionale, ha fatto presente come «il diritto alla speranza non può che essere collegato al concetto di responsabilità collettiva che vede la sussistenza dei diritti inviolabili dell’uomo, come singolo e nell’ambito delle formazioni sociali. Un conto è la persona e un altro il suo reato. Il carcere fa parte della comunità e lo Stato, che li ha presi in carico, deve garantire ai detenuti, dignità e rispetto dei diritti, anche nella cura sanitaria». Inoltre, collocare urbanisticamente un carcere in estrema periferia significa considerarlo in un contesto di marginalizzazione. Di qui la sua sollecitazione a salvare San Vittore e quell’idea, fondamentale per la formazione dei giovani, di rendere le strutture penitenziarie luoghi visibili in quanto parte della comunità.

Per raggiungere tali risultati, però, è necessario avere risorse economiche e umane. E queste mancano, ha rilevato Teresa Mazzotta, dirigente dell’Ufficio interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna della Lombardia, che si occupa di misure alternative al carcere: «La riforma Cartabia ha ampliato la possibilità di interventi anche a livello preventivo, tuttavia, ci ha trovati impreparati in quanto non abbiamo risorse sufficienti per la presa in carico di persone. Milano, per esempio, riscontra una carenza del 60% di personale: sui 79 operatori che dovrebbero esserci ce ne sono in servizio solo 30. Inoltre, occorre lavorare per intervenire sulla dimensione sociale anche a livello di genitorialità e di sistema educativo».

Sul ruolo delle misure alternative, è tornato don Marco Recalcati, cappellano del carcere di San Vittore, auspicando un coinvolgimento delle parrocchie nell’ospitare i detenuti. Attraverso esempi concreti ha rilevato che non sempre la comunità è disposta ad accogliere chi, durante il suo cammino, ha commesso scelte sbagliate. Tuttavia, «rompendo gli stereotipi che abbiamo sui detenuti e superando la diffidenza, diventano persone su cui poter contare, un lievito per la comunità».

Lo sperimentano ogni giorno associazioni come Caritas ambrosiana, sin dagli anni Novanta impegnata nelle carceri. «È importante lavorare sul territorio affinché si possa arrivare a pensare che il carcere sia una forma temporanea», ha avvertito Ileana Montagnini, dell’area Carcere e Giustizia della Caritas Ambrosiana, auspicando «una nuova cultura di giustizia che scardini l’inefficacia della situazione presente e si occupi della ferita della comunità tutta».   

Ecco allora la necessità di «leggere i segni dei tempi per trovare segni di speranza e far diventare lo scarto una risorsa». È il messaggio forte che arriva dalle parole conclusive di don Nazario Costante, direttore della Pastorale Sociale e del Lavoro dell’Arcidiocesi di Milano, tra i promotori del dibattito. «Oggi non solo abbiamo avviato un processo ma abbiamo cercato di dare un metodo operativo, cioè quello del dialogo trasversale, per superare la frammentarietà, per avere uno sguardo sul bene dell’uomo, inteso come essere umano, persona e non solo come cittadino». La questione della giustizia è difatti un «processo» che non può essere delegato a pochi, ma chiede «l’impegno concreto della comunità e del suo sapersi mettere a disposizione».



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