Capello: “Che spreco Cassano, Rivera il migliore. Cacciai Ronaldo il fenomeno, non voleva dimagrire”

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Facciamo finta che il mitico Mike Buongiorno rinasca tra un’”allegriaaaaa” e un “ahi ahi ahi”. E ai concorrenti del quiz vattelappesca chieda: “Il Fabio più vincente della storia del calcio”. Dopo un nanosecondo il signor Ciccio Balocco da San Giovanni Lupatoto preme il pulsante e in ogni casa del pianeta tutti fanno lo stesso. Nessuno al mondo può non rispondere “Capello”. Inutile scrivere qui, servirebbero più pagine della Divina Commedia, l’elenco dei successi del signor Fabio da Pieris. Meglio far parlare lui che di cose da dire ne ha, eccome.

Capello, perdoni. Lei ride mai?

(Ci pensa). «Rido quando c’è da ridere, quando mi diverto, come tutti credo, non sono così duro come sono stato a volte dipinto».

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Però i soprannomi Don Fabio e Sergente di ferro avranno un senso.
«Ma no, non mi ritengo assolutamente un sergente. Semplicemente rispetto la gente che lavora e voglio che gli altri, tutti gli altri, facciano lo stesso. Detesto vedere trattare male le persone. Chi ha giocato o chi ho allenato aveva un obbligo: rispettare le persone, mi ripeto volutamente. Non transigo. Non voglio vedere alcuno del mio staff o dei fisioterapisti, insomma chiunque, trattato non bene. Quando andavamo a giocare all’estero ci tenevo ancora di più. Nei ristoranti, negli alberghi: ragazzi comportatevi da persone educate e rispettate i camerieri e qualunque altro stia lavorando, vi piacerebbe che vostro fratello o vostra madre non venissero rispettati? Idem sugli orari degli allenamenti: rispetto quindi puntualità. Il lavoro non si chiama lavoro per caso. Per il resto ho sempre dato, invece, massima libertà. Dai, su, sergente proprio no».

Quante partite vede alla settimana? E allo stadio o in televisione?
«Allo stadio poche, in tivù tante. Numeri non ne faccio, ormai se ne gioca più di una al giorno (ride). Qualche volta vorrei andare sul posto perché preferisco lo stadio. Soltanto lì vedi tutto e uno come me che ha fatto il tecnico vede meglio ogni cosa. Vedi il momento di difficoltà del singolo, per me è come se la gara l’avessi preparata io».

E vede soltanto calcio italiano?
«No! Vedo quello inglese più di tutti, poi qualcosa della Bundesliga, e invece vorrei tanto vedere quello spagnolo che mi piace da matti ma dove abito non prendo bene il segnale».

Curiosità. Le capita di parlare a voce alta sul divano seguendo un incontro? Roba tipo che le viene da dare consigli a suoi colleghi?
(Ride). «Eccome, e mica pochi. Vivo la partita, non sto zitto un secondo».

Ci sono differenze non esclusivamente tecnico tattiche rispetto a quando allenava lei?
«C’è, ripeto, un’evidente evoluzione da parecchi punti di vista. Pensi ai materiali, ai terreni, alla preparazione, alla fisioterapia. Oggi un ragazzo si fa male e sa che cos’ha in tempo quasi reale e così la società, l’allenatore, lo staff».

E con queste evoluzioni, lei avrebbe persino potuto fare meglio?
«Meglio si fa solamente con i buoni giocatori. Poi è bravo chi li fa rendere al massimo».

Un super mega iper passo indietro. Suo padre, Guerrino, fece il servizio militare come ufficiale nell’artiglieria e visse l’orrore dei campi di concentramento nazisti tanto da essere deportato in cinque di quelle atrocità. Che cosa le hanno lasciato quei racconti?
«Non ne parlava volentieri. Lui non aderì alla repubblica di Salò quindi venne considerato un traditore. Si salvò per il rotto della cuffia. Considerate che ci furono più vittime durante la Liberazione per la scarsa qualità, eufemismo, del cibo che mangiavano. Per il babbo era un dolore affrontare questi argomenti, era una sofferenza troppo grossa. Nei campi di concentramento nemmeno facevano arrivare il cibo che spediva mia madre. Mi fece impressione una cosa. Un giorno gli chiesi delle condizioni igieniche dei bagni. Lui rispose con un mezzo sorriso e mi disse: quali bagni? Ecco, non servivano perché mangiavamo niente. Ma c’è sempre un aspetto positivo. In quegli orrori si sviluppava un’incredibile intelligenza dell’essere umano perché in quelle situazioni riesci a tirar fuori cose impensabili, ma impensabili davvero. Certe invenzioni che hanno cambiato il mondo sono nate nei campi di concentramento proprio perché andava sfruttato ogni minuto. Papà ho potuto viverlo fino ai miei quindici anni, faceva il maestro elementare, gli piaceva essere severo ma allo stesso tempo accondiscendente e apprezzava soltanto le persone che avevano voglia di lavorare».

Ha fatto il manager in Fininvest, il commentatore televisivo, il calciatore, l’allenatore, il selezionatore e in molti paesi e ha vinto in ogni campo. Ha più vite dei gatti, sono concessi gesti apotropaici.
«Ma sono cose a cui assolutamente non penso. Penso invece alle cavolate che ho fatto e che vorrei cambiare. Farsi un sincero esame di coscienza è il minimo, anzi dovrebbe farlo chiunque. I successi passano, io preferisco guardare al giorno dopo. E poi è sempre merito di tutti, mai soltanto mio. Mi ha sempre fatto piacere lavorare con tantissime persone che poi mi hanno aiutato a vincere, da soli non ci si riesce. In casa non ho coppe o cimeli vari, non vivo di ricordi».

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E tutti quei trofei che fine hanno fatto?
«Stanno in un baule. Dev’essere la storia e devono essere gli altri a ricordare».

È pure un grande intenditore di vini, un amante dei viaggi, un cacciatore e un esperto e collezionista mondiale di arte. C’è una cosa, una sola che non ha fatto e che non le interessa?
«No, no, ferma. Intenditore di vini non esageriamo, non lo sono mai stato. Mi piaceva, approfondivo ma gli intenditori sono i sommelier. Viaggi sì. Tantissimi. Una grande passione. Ho sempre amato conoscere qualunque posto anche per merito di mia moglie, fanatica nel voler scoprire posti. Semplicemente, come tutti, mi interesso a tante cose che mi piacciono. Credo sia importante fare quello che ti regala emozione, e più che altro mi piace mettermi in discussione».

Più di venti anni fa, in un pranzo a Ferrara a casa del suo primo allenatore, il mitico Gibì Fabbri, davanti al sempre compianto Paolo Rossi magari non si ricorda, avemmo una sorta di battibecco perché feci una battuta sulla sua poca umiltà…
«Ah ah, mi ricordo eccome. E invece lo sono eccome. Sono soltanto naturale, gliel’ho già detto. Non recito, e ritorniamo sempre al rispetto di cui sopra».

Sinceramente si ricorda tra premi e trofei quanti ne ha vinti? Secondo un sito di statistiche, tra giocatore e allenatore, in fatto di coppe alzate al cielo come lei nessuno mai.
«Mah, devo crederci?».

E perché no?

«Non lo sapevo e mi sorprende pure. Vuol dire che abbiamo lavorato bene tutti insieme. Mai fatto i conti, resta tutto nel baule che dicevo prima. Mi ricordo più quelli che ho perso» (Ride).

Il successo al quale è più legato e la sconfitta maggiormente dolorosa.
«Parto da lontano. Il primo. Da bambino sogni di giocare in prima squadra, poi di arrivare in nazionale, quindi di vincere scudetti e coppe. Mi sento particolarmente orgoglioso del famoso gol all’Inghilterra perché lo dedicai ai ventimila camerieri come apostrofava la stampa inglese i nostri tifosi perché facevano i mestieri più umili nel loro paese. Il più triste in Germania. C’erano tanti emigrati connazionali e facemmo una pessima figura ai Mondiali. Una immensa amarezza. Ricevemmo insulti meritati che mi porto ancora dentro».

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Un giocatore che ha allenato e poteva diventare un campione e invece si è perso.
«Perso no ma Cassano aveva potenzialità pazzesche, che peccato. Poi Guti nel Real Madrid: lui e Antonio avevano genialità vere ma se non fai sempre l’atleta e ti comporti come tale sprechi occasioni clamorose».

E il più forte in assoluto?
«Ho giocato con Rivera. Stop. Valeva la pena correre per lui. Poi ho allenato Ronaldo, il gordo, il fenomeno. Ma ho dovuto mandarlo via per vincere il campionato. Non voleva cambiare, non dimagriva, era negativo nella squadra. E siccome ci vuole sempre rispetto… adios».

Come sopra ma passiamo all’allenatore.
«Il più bravo dal quale ho preso almeno il settanta per cento, di sicuro Herrera. Poi Liedholm, bravissimo. Ma prima Gibì Fabbri. Ero un ragazzino. Dal punto di vista tecnico mi ha insegnato più di tutti. Le cose che faceva in campo e che ci diceva le ho riproposte e insegnate nel corso della mia carriera a dei grandi professionisti. Dicevano che è era roba vecchia. Ma valà!».

Arriviamo a oggi. Uno o più tecnici nei quali rivede qualcosa di lei e lo stesso per i calciatori.
«Tra gli stranieri dico Klopp. Da noi per la gestione di sicuro Gasperini e anche come idee. Sono d’accordo con quasi tutte le decisioni che prende».

Da bambino per chi tifava? E oggi?
«Da piccolissimo per la Juve, poi visto che devo tutto a Berlusconi che mi ha scoperto mentre lavoravo dietro una scrivania ovviamente per il Milan».

Quali parole pensa di aver nominato di più in questa intervista?
«Oddio, non so. So solo qual è la parola più importante della mia vita. E’ “Provaci”. Me l’ha sempre detto papà e me lo scriveva pure quando ci mandavamo lettere. Non avevamo il telefono, eravamo una famiglia povera. Un giorno, fuori dall’istituto dove studiavo, parlando e mangiando insieme me lo ridisse per l’ennesima volta. “Provaci sempre, Fabio”. Ecco».
Invece sono state “rispetto” e “lavoro”.
(Ride di gusto). «E mi fa piacere. In queste due parole ci sono io, c’è tutta la mia vita».

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