‘L’Altravoce’ di Barbano parte dal futuro dell’informazione


‘Il Quotidiano del Sud, l’Altravoce del lunedì’ dedica un numero speciale per indagare il sistema dell’informazione e preparare il debutto della nuova edizione di l’Altravoce con la direzione editoriale di Alessandro Barbano.

Con un lunghissimo editoriale di Alessandro Barbano sul destino del giornalismo nelle democrazie – di cui pubblichiamo il testo qui sotto -, è oggi in edicola il numero speciale de ‘Il Quotidiano del Sud, l’Altravoce del lunedì’.

Gli articoli sono a firma di Gianluca Cicinelli, con un servizio su ‘Agenzie stampa, algoritmi, piattaforme. Le notizie secondo chi scrive (e chi legge)’; Maria Teresa Pedace su Fake news e deep fake un universo in bilico tra disinformazione e censura; Michele Mezza su ‘Interferenze digitali. Ma il giornalismo è insieme formazione e informatica’; Marco Mele ‘Podcast, influencer social e web tv. La valanga informativa che tutti produciamo’; Maria Francesca Astorino ‘OMS, defezioni che mettono alla prova cooperazione e informazioni sanitaria’; Francesco Zardo ‘Information disorder. Quanto costa combattere la cattiva informazione’; Enrica Procaccini ‘Libertà di espressione verso cyber bullismo. Il lato scuro della modali à online’; Jacopo Benevieri ‘La deformazione del linguaggio. Viaggio dalle aule di giustizia ai media’; Francesco Provinciali ‘Carta stampata informazione on line. Qual è la vera democrazia della parola?’.

L’editoriale è una specie di presentazione di cosa pensa dell’importanza dell’informazione e del mestiere di giornalista il candidato alla direzione editoriale del quotidiano della Fondazione Mario Dodaro, ente autonomo creato dai figli, dalla moglie e da alcuni altri parenti in ricordo del capo famiglia un imprenditore del settore agroalimentare assassinato dalla ‘ndrangheta il 18 dicembre 1982.
Barbano, una lunga esperienza editoriale, tra cui la vicedirezione e direzione del ‘Messaggero’, la direzione del ‘Mattino di Napoli’, la condirezione del ‘Corriere dello Sport’ e la conduzione dei dibattiti di Waroom, il web talk di Enrico Cistetto, avrà l’incarico di trasformare la testata, che si chiamerà ‘l’Altravoce’, in tandem con il direttore Stefano Regolini, in un quotidiano di respiro nazionale anche se con grande attenzione al Sud, palestra di dibattito liberale e riformista, di cui è previsto il debutto il 17 febbraio.

Le ragioni di un nuovo pluralismo (di Alessandro Barbano)

Le ragioni del giornalismo sono in discussione in tutte le società aperte. Nell’era digitale il pluralismo si è inverato senza garantire tutte le condizioni di libertà e di giustizia sociale che ad esso parevano connesse.
Accade talvolta il contrario: che tra il pluralismo e le diseguaglianze non esista alcun rapporto.
Accade in molte democrazie avanzate che crescano entrambi e che il primo sia ininfluente rispetto alle seconde. Con l’effetto che società profondamente plurali si rivelino anche oltremodo ingiuste. Al punto da chiedersi se il pluralismo debba ancora concepirsi come una garanzia d’accesso e di espressione offerta ai soggetti deboli.
Se nell’era dell’interconnessione in cui tutti hanno accesso a tutto e in cui tutti hanno una chance di espressione e di visibilità nello sconfinato circuito dei media, esso non debba rappresentare piuttosto uno strumento di selezione nel flusso indifferenziato di messaggi di cui tanto i giornalisti quanto gli utenti sono destinatari. Se cioè non debba essere ripensato come simbolo di una democrazia che sfida il conformismo attraverso le differenze e che reinventa una nuova gerarchia fondata sulla qualità.
Il pluralismo misurato in senso quantitativo non è il miglior modo di organizzare il discorso pubblico.
Il dibattito apertosi in alcuni programmi tv attorno al conflitto ucraino ne è un esempio eloquente. Al netto dell’impegno dei conduttori di rispettare un’acritica terzietà, due opinioni opposte generano reazioni che si dispongono in base a una preesistente geografia interiore delle emozioni: così la paura e il bisogno di sicurezza sposano più facilmente l’idea di una pace che si propone come rinuncia a combattere, rispetto a quella che impone il sacrificio e il rischio di resistere. 

Ci sono domande che non possono e non dovrebbero essere trattate sul piano, per così dire, dell’opinione, sottratte cioè a una storicità che richiede competenza e memoria. Senonché la guerra, staccata dalla storia e catapultata in un talk, somiglia a Sanremo. Le opzioni dei governi e dei popoli sono rappresentate nel conflitto tra meri punti di vista, dietro i quali è facile scorgere l’insidia del pregiudizio ideologico. Il pro e il contro raccontano insieme una forma di cancellazione culturale, perché scollano la tragedia che si compie dalle sue cause remote.
Il Novecento, le sue atroci dittature e i due conflitti mondiali, la durissima lotta per la libertà sfumano nell’oblio o si ricompongono in un accrocco soggettivo. Che talvolta coincide con un divorzio dai saperi, cioè con una falsificazione.
Il discorso pubblico è il punto di maggiore fragilità delle democrazie di fronte alle grandi crisi. Ed è anche il fianco offerto ai regimi. Non a caso autocrati come Putin ne approfittano per esibire la presunta superiorità dei loro rimedi spicci. Anche la Russia corre il rischio di una divisione radicale  dell’opinione pubblica nel cuore del suo sforzo bellico. Ma la affronta con la censura della parola “guerra”, e una legge liberticida per chi la viola. Così da sempre i dittatori riannodano i loro soprusi a una giustificazione che combacia con la difesa di una presunta identità. Le democrazie non possono fare altrettanto, senza cessare di essere tali. E non possono neanche impedire che il racconto decisivo sul loro destino avvenga dentro il copione del varietà.
Non possono disarmare il conflitto televisivo tra una filosofa annoiata della solitudine, uno scrittore eccentrico, un giornalista di lungo corso che ostenta scetticismo, e una soubrette con quella che si dice “una bella testa”.
Non possono evitare che della guerra e sulla guerra si rida, che la satira spalmi la morte come una marmellata agrodolce sul suo spicchio di intrattenimento. Le democrazie devono coltivare il proprio paradosso, per cui la fragilità, a cui le espone la libertà di critica di tutti su tutto, è al tempo stesso la loro inestimabile ricchezza. Però hanno, al pari dei regimi, la necessità di costruire coscienza attorno a decisioni cruciali e non prive di prezzi. 
Due fattori fanno, di questa necessità, un’urgenza. Il carattere globale delle crisi contemporanee e l’interdipendenza, non solo economica, tra sistemi politici e civili diversi, e spesso confliggenti, su diritti fondamentali. Si fa presto a dire isoliamo i regimi, in un mondo in cui l’interscambio tra Cina e Occidente ammonta a millecinquecento miliardi di euro, equamente divisi tra America ed Europa. Ma stare sullo stesso campo, con regole e culture diverse, può significare fare dell’irrisolutezza democratica un vantaggio per le dittature.
Il problema per la democrazia è oggi la capacità di coesione e di reazione su problemi che assumono una dimensione universale, che siano la guerra in Ucraina o piuttosto la pandemia. Un obiettivo abbordabile nelle nazioni cementate da una memoria condivisa, meno in Italia, dove la memoria condivisa coincide con il conflitto su quanto valga, e da che parte stia, la libertà.
In ogni caso nessuna democrazia può più sottrarsi a riconsiderare la qualità del dibattito pubblico in cui si trattano vicende decisive per la comunità. Deve farlo trasformando la dialettica civile da energia distruttiva in una risorsa, senza cedere alla tentazione autoritativa della censura e a quella moralistica della pedagogia di Stato.
Vuol dire, senza intaccare il diritto di critica, consolidare alcuni punti fermi del patto di civiltà: difendere la libertà con ogni mezzo, tendere all’eguaglianza, condividere la solidarietà, promuovere il proprio modello con spirito cosmopolita, riconoscendone senza iattanza ma con responsabilità il primato. E da ultimo riassegnare alla politica, e non alla tecnica, il foro che decide ciò che è bene e ciò che è male per la comunità.
Ciò appare indifferibile di fronte a una realtà virtuale percepita come un mondo parallelo su cui transita parte della nostra stessa esperienza quotidiana. Ma anche di fronte alla tendenza del web a semplificare e ridurre la complessità nel conformismo o in una dialettica binaria dove tutto finisce per essere o bianco o nero. È il paradosso del rapporto tra comunicazione e società: la prima ha ridotto il suo spettro d’analisi e di rappresentazione proprio mentre la seconda accresceva la sua complessità. Oggi sappiamo che l’egemonia delle nuove tecnologie dell’informazione ha un effetto bifronte: da una parte favorisce un’evoluzione virtuosa della democrazia, lo spostamento del potere verso il basso e la nascita graduale di una società della conversazione; dall’altra, può tendere a radicalizzare le convinzioni dei consumatori di notizie, riflettendo a livello globale la crescita dell’antipolitica e l’esaltazione della società civile contro lo Stato. C’è da chiedersi se l’utopia di una società fatta di soli legami orizzontali che scorrono nelle condotte dei new media non finirebbe per erodere, insieme con le vecchie gerarchie verticali dello Stato moderno, anche le forme e i principi della civiltà democratica. 
In prima istanza, l’emorragia delle credenze chiama il giornalismo a fare i conti con la verità, a porsi costantemente e responsabilmente alla sua scoperta. Che non significa darla per certa e acquisita, né negare il magistero interpretativo del giornalismo, ma piuttosto orientarlo a una ricerca rigorosa attorno alla realtà, tornare a usare la sua tecnica come mezzo e non come fine, indagare il fascio di relazioni che lega fatti e fenomeni al contesto in cui questi sono iscritti. 
La responsabilità della verità coincide con un nuovo realismo. Il giornalismo resterà un riferimento forte della democrazia nella misura in cui aprirà al lettore una strada verso la complessità del reale.
Per riuscirci deve realizzare uno spostamento da una visione cronistico-morale della realtà ad una analitico- interpretativa.
«Deve essere – scriveva quasi trent’anni fa Rodolfo Brancoli – veicolo d comprensione che impone un minimo di ordine al caos e aiuta un popolo che si autogoverna a capire le forze che influiscono sulla sua vita e sulla comunità, in modo da consentirgli di guidarle».
Questa lezione chiama il giornalismo a sfidare una certa deriva tecnologica e consumistica all’interno dei processi di produzione delle notizie. A segnare cioè una discontinuità costante rispetto all’omologazione di una comunicazione autopoietica, in quanto capace di riprodursi da sé prescindendo dalla realtà, e autoreferenziale, in quanto riferita a se stessa più che a un pubblico di fruitori. C’è da chiedersi se ciò non significhi anche la rinuncia a un’irraggiungibile completezza che finisce per imporre un’agenda di ciò che è notiziabile uguale per tutti e senz’anima, in ragione di un’informazione che si caratterizzi invece per il suo contenuto di scelta. Tale scelta, visibile e dichiarata, non dovrebbe però mai porsi come un’ipoteca morale sulla stessa notiziabilità dei fatti, ma come un angolo interpretativo da cui suggerire al lettore spunti di approfondimento e di riflessione. 
In seconda istanza il giornalismo deve riferirsi a un ideale di indipendenza. Esso non coincide con una comoda neutralità e neanche con un’acritica imparzialità, ma con un’autonomia dall’alto e dal basso, dai condizionamenti dei gruppi di pressione e dalla vischiosità e dalla debolezza del sapere comune. In realtà la più autentica autonomia che il giornalismo dovrebbe perseguire è quella che lo sottrae al preconcetto primato delle sue idee, consentendogli di metterle in discussione e, se necessario, di smentirle al confronto con la verifica della realtà. Poiché è l’indipendenza, non una generica libertà, che qualifica il ruolo del giornalismo in una democrazia, e lo avvicina a quella verità che rappresenta il suo irraggiungibile eppure indefettibile Vangelo.
Di tutti i poteri che minacciano l’indipendenza, il più temibile, perché subdolo e talvolta invisibile, è proprio il conformismo delle idee, che recluta e fidelizza i suoi adepti con il rassicurante senso di protezione di un pensiero egemone, e dissuade i dissidenti e i pentiti con la forza delle sue scomuniche. C’è da chiedersi che conseguenza abbia il fatto che i giornalisti italiani più autorevoli e più visibili, quindi più dotati di voce, quindi più decisivi nella formazione di un’opinione pubblica, siano quasi tutti etichettabili dentro una geografia culturale e politica precisa, a partire proprio dalle loro idee. E che invece i giornalisti non catalogabili nettamente da una parte o dall’altra siano anche i meno esposti e finiscano per parlare a segmenti molto stretti di società, coincidenti con le élite.
L’indipendenza è il tratto qualificante del giornalismo, poiché è espressione di una sensibilità che si misura con il reale senza preconcetti e trae, da ogni esperienza, lo spunto per nuovi dubbi e nuovi approfondimenti.
Prove concrete di quest’indipendenza sono:
1) Il rispetto rigoroso del contesto interno in cui si collocano fatti e fenomeni, oggetto delle notizie, evitando ogni forma di decontestualizzazione e salvaguardandone l’essenza più intima;
2) un costante lavoro di ricerca che riporti i quesiti di senso comune al livello di problematicità di una società complessa, affinché la mediazione offerta dalla comunicazione giornalistica si ponga come un mezzo di conoscenza e di interpretazione della realtà;
3) la difesa e la promozione di una dialettica democratica all’interno dell’organizzazione del lavoro, nella convinzione che essa sarà determinante rispetto alla qualità e alla trasparenza dell’offerta informativa. 

Un terzo principio etico del giornalismo è la tolleranza. Essa attinge a un umanesimo liberale in grado di
conciliare le convinzioni diverse presenti nella nostra cultura, esponendosi al compromesso, alla continua
negoziabilità dei valori, ridefinendone le priorità in ragione dei cambiamenti sociali.
Tale tolleranza non esprime il senso di una rinuncia, ma di una maturità: essa afferma il principio di una possibile convivenza con ciò che non si condivide. Non si tratta di un concetto debole, ma flessibile: esso riconosce l’esistenza e la legittimità della diversità, ma anche quello del confronto con la sua presenza: un confronto che può anche indurre a resisterle, ma in un modo contenuto e rispettando l’essenza dell’altruità.
Con quella mitezza, elogiata come virtù civile dal filosofo Norberto Bobbio, che «rifiuta la gara distruttiva della vita». In quest’equilibrio c’è il senso di un giornalismo che voglia rinunciare tanto alle campagne di evangelizzazione morale dell’umanità, quanto al suo indifferente quando non cinico distacco per il dolore che spesso rappresenta. 
L’ultimo principio di riferimento è quello della responsabilità. Essa è anzitutto coscienza degli effetti di ciò che si comunica, che imporrebbe in molte circostanze una prudenza e talvolta perfino una rinuncia, in nome di un principio di precauzione. A tale principio se ne connette un altro di derivazione giuridica ma
centrale anche per il giornalismo: il principio di presunzione di innocenza. L’accesso del giornalista alla
realtà dei fatti oggetto di un’inchiesta penale spesso è angolare: con una metafora potremmo dire che il
giornalista guarda da una finestrella decentrata e angusta quello che accade su una spiaggia affollata,
servendosi solo del suo binocolo. Pensate al rapporto tra il giornalista e le fonti in quella fase del processo penale che si definisce delle indagini preliminari, dove la ragnatela di indiscrezioni interessate e l’impari equilibrio tra accusa e difesa rischiano di trasferirsi nella comunicazione, sbilanciandola. In questa condizione è facile perdersi dietro un miraggio, cadere nella tentazione di coprire i vuoti dell’indagine con i nostri riferimenti morali. Se pure è in discussione che la comunicazione del giornalista debba sempre ancorarsi a una verità provata dei fatti, cionondimeno nel suo rapporto di scambio con il lettore egli ha una serie di obblighi ineludibili. Tra questi quello di un’onestà che pare anch’esso riferibile a un concetto di derivazione giuridica: quella diligenza del buon padre di famiglia che impone ai contraenti un reciproco obbligo di informazione sulle circostanze determinanti per la conclusione del contratto e all’altra parte ignote.
Allo stesso modo il giornalista deve costantemente informare il suo lettore sul livello di attendibilità delle
notizie, mettendolo anche nella condizione di valutare la credibilità di una fonte, piuttosto che nascondere ogni incertezza dietro un condizionale e azzardare qualunque illazione.
Non è casuale che – sempre in ambito giuridico – a quest’obbligo di diligenza corrisponda un principio decisivo nell’etica commerciale: la tutela dell’affidamento, che impone a ciascuna parte di rispettare e offrire condizioni di reciprocità alla buona fede con cui l’altro contraente si è impegnato nel contratto. Ciò spiega perché la fidelizzazione in campo giornalistico non sarà mai esclusivamente un’alchimia del marketing, ma involgerà sempre più un rapporto complesso tra il lettore e il suo prodotto.



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