Sempre più editori impongono una connessione online obbligatoria per far funzionare i giochi, ma sempre più spesso interrompono la possibilità di utilizzarli disattivando i server e rendendo i titoli inutilizzabili. In molti casi, ostacolano anche ogni tentativo dei giocatori di ripristinarli, cancellando di fatto intere librerie digitali. Un caso eclatante ed estremo di obsolescenza programmata praticata attraverso la disabilitazione a distanza dei videogame.
Questa pratica priva i giocatori della possibilità di continuare a fruire di un prodotto che hanno acquistato, impedendo loro ogni possibilità di recupero. Oltre a violare i diritti dei consumatori, mette a rischio un patrimonio culturale e costringe a un ricambio continuo incoraggiando il consumismo. Per giunta, i videogiochi, come film e musica, sono opere uniche e insostituibili e la loro cancellazione non è solo una perdita per gli utenti, ma anche per la storia del settore.
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Un’industria particolare
La normativa a livello internazionale non tutela adeguatamente le tante persone appassionate di console. In nessun’altra industria un’azienda può distruggere un bene dopo la vendita. Ma con le licenze digitali molte protezioni vengono aggirate, minando il concetto stesso di proprietà: chi compra un gioco rischia di ritrovarsi con nulla in mano dopo un certo periodo, in virtù della decisione dell’editore di “staccare la spina”.
Per contrastare questo fenomeno, in Europa nasce nell’estate del 2024 l’iniziativa “Stop Destroying Videogames”, un’Iniziativa dei cittadini europei (European citizen Initiative), una raccolta firme che potrà diventare una proposta normativa al raggiungimento di 1 milione di firme e soltanto se ha raggiunto delle soglie minime prestabilite in almeno sette Paesi (in Italia la soglia minima è di 53.580 firme: oggi siamo poco sopra 23mila). Per firmare si può andare direttamente sulla pagina dedicata del Parlamento. Al momento la soglia minima è stata superata già in 6 Paesi: Irlanda, Paesi Bassi, Germania, Polonia, Svezia e Finlandia. Complessivamente le adesioni ad oggi sono poco oltre quota 414.000 e il termine ultimo per presentare la raccolta è il 31 luglio 2025.
Come affrontare il problema?
L’idea alla base dell’iniziativa è chiara: chiedere all’Unione Europea di imporre agli sviluppatori di garantire che i giochi dismessi restino almeno giocabili. Ma cosa significa? Dipende: nel caso dei titoli online, potrebbe voler dire consentire la creazione di server privati; per quelli ibridi, assicurare un funzionamento offline. Il problema si è acuito con la diffusione del gioco online e del modello Game-as-a-Service (GaaS). Si tratta di un modello che permette agli sviluppatori di generare un flusso continuo di reddito dai proventi di un gioco.
Non più, quindi, giochi che si comprano in blocco in negozio, ma che, grazie all’esplosione dei giochi da smartphone, possono essere modulati a seconda delle esigenze del gamer. In pratica si inizia con versioni free-to-play per poi aggiornare i contenuti per rispondere alle esigenze degli appassionati.
Con il GaaS se lo sviluppatore spegne i server, i giocatori restano a mani vuote. Questo accade quando l’utenza è ridotta, ma “ridotta” non significa “inesistente”. E se anche pochi appassionati vogliono continuare a giocare – soprattutto dopo aver pagato per poterlo fare – perché negare loro questa possibilità?
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Non così pochi
In alcuni casi i giocatori abbandonati dagli sviluppatori non sono pochi, ma milioni: 12, secondo Scott Ross, YouTuber di Accursed Farms. È il caso di The Crew, dismesso da Ubisoft (una multinazionale francese dedita allo sviluppo e alla pubblicazione di videogiochi) senza rimborsi né alternative nel marzo del 2024, in perfetta coerenza con la sua politica: il gioco non è tuo, hai solo una licenza temporanea.
Un modello diffuso, in cui i videogiochi vengono venduti come beni ma resi inutilizzabili alla fine del supporto. La legalità di questa pratica è poco esplorata e molti governi non hanno leggi chiare in merito. L’obiettivo della campagna è portare il tema all’attenzione delle autorità e, idealmente, fermare una pratica dannosa per consumatori e conservazione digitale. L’iniziativa non si ferma all’Europa: petizioni ufficiali sono state lanciate anche nel Regno Unito, in Canada, Australia e persino negli USA.
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