Dazi, Trump dipende dal petrolio canadese perché non crede alle energie rinnovabili

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Negli ultimi anni, la geopolitica del petrolio ha rivelato contraddizioni sorprendenti. Un caso emblematico è stato il recente confronto commerciale tra gli Stati Uniti di Donald Trump e il Canada, in cui il premier canadese Justin Trudeau ha minacciato di imporre misure restrittive o maggiori tasse sulle esportazioni di petrolio canadese agli USA come punto di pressione in una possibile guerra commerciale. Non è un caso che il presidente statunitense abbia concesso uno “sconto” dei dazi dal 25 al 10% proprio per il prezioso petrolio proveniente dal Canada.

Questa dichiarazione potrebbe sembrare paradossale, dato che gli Stati Uniti sono il primo produttore ed esportatore mondiale di combustibili fossili grazie alla tecnologia del fracking. Secondo i dati disponibili dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, gli Stati Uniti sono il maggior produttore mondiale di petrolio sia grezzo che raffinato, seguiti da Arabia Saudita e Russia. Il Canada, quarto produttore mondiale, gioca un ruolo cruciale nel mercato petrolifero statunitense.

Cos’è il fracking

Negli ultimi quindici anni, l’estrazione di petrolio negli Stati Uniti è cambiata radicalmente con la diffusione del fracking, che permette di estrarre shale oil e shale gas da rocce profonde, a oltre 1.000 metri di profondità. A differenza dell’estrazione tradizionale, che utilizza perforazioni verticali con un impatto superficiale limitato, il fracking richiede perforazioni orizzontali e l’utilizzo di grandi quantità di acqua ad alta pressione per fratturare le rocce e liberare il petrolio intrappolato. Secondo i dati dell’US Energy Information Administration, la percentuale di pozzi orizzontali è aumentata dall’8% al 21% nell’ultimo decennio, con un numero quintuplicato negli ultimi dieci anni. Questa tecnica ha permesso agli Stati Uniti di aumentare la produzione petrolifera, ma ha anche trasformato la qualità del petrolio estratto, rendendolo diverso da quello convenzionale.

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Perché gli Usa importano petrolio dal Canada (e il suo impatto)

Per quale ragione, quindi, nonostante siano il primo produttore mondiale, gli Stati Uniti continuano a importare grandi quantità di petrolio dal Canada, che copre circa il 60% delle importazioni petrolifere statunitensi? Il motivo è che il petrolio di scisto estratto negli Stati Uniti è più leggero e non adatto alla maggior parte delle raffinerie americane, progettate per processare un petrolio più pesante e simile a quello proveniente dalle sabbie bituminose del Canada. L’ultima grande raffineria costruita negli Stati Uniti risale alla metà degli anni Settanta. A quei tempi, le raffinerie statunitensi erano progettate per processare greggi più pesanti, poiché si riteneva che la produzione petrolifera statunitense fosse destinata a diminuire nel lungo periodo e che la maggior parte dell’approvvigionamento di grezzo sarebbe derivato dai petroli pesanti del Medio Oriente, dell’America Latina e del Canada.

Di conseguenza, oggi gli Stati Uniti si trovano in una situazione paradossale: esportano il loro shale oil leggero mentre importano petrolio canadese più pesante per mantenere operative le loro raffinerie, seguendo un processo di lavorazione molto costoso ma anche molto redditizio. Un cambiamento radicale nelle infrastrutture di raffinazione richiederebbe investimenti enormi e tempi lunghi, un passo che gli Stati Uniti non hanno, almeno per il momento, deciso di compiere, anche per non perdere l’expertise e la redditività acquisite nella raffinazione del petrolio pesante. Questo tipo di petrolio, peraltro, ha un forte impatto ambientale. Secondo l’Enciclopedia Treccani, se per ottenere un barile di petrolio convenzionale si producono 29 kg di CO2, per un barile di petrolio dalle sabbie bituminose del Canada si producono circa 125 kg di CO2. Inoltre, si stima che il 44% dei gas serra prodotti dal Canada tra il 2006 e il 2020 sia stato causato dall’estrazione e dalla produzione di petrolio bituminoso nel paese.

In conclusione, gli Stati Uniti dipendono in modo sorprendente dal petrolio canadese, che si è trasformato da leva strategica in una potenziale guerra commerciale tra i due paesi. Le raffinerie statunitensi, con una capacità di circa 20 milioni di barili al giorno, svolgono un ruolo cruciale nel commercio internazionale, importando greggio da Canada e Messico ed esportando prodotti raffinati di alto valore in Asia, Africa, Europa e Americhe. Complessivamente, questa industria genera circa 700 miliardi di dollari all’anno di attività economica e sostiene quasi 3 milioni di posti di lavoro.

L’efficacia delle energie rinnovabili

Questa complessa dipendenza e le tensioni commerciali che ne derivano non esistono nel settore delle energie rinnovabili. Un pannello solare funziona ovunque nel mondo, dal Nord Europa all’Equatore, senza necessità di adattamenti particolari. Lo stesso vale per l’energia eolica, che differisce solo tra turbine su terra e offshore.

L’evoluzione del mercato energetico mette in evidenza due tendenze opposte: da un lato, le energie rinnovabili offrono una soluzione standardizzata, efficace e globale; dall’altro, il settore petrolifero è segnato da contraddizioni, dipendenze complesse e guerre commerciali basate su squilibri strutturali. Questo dimostra come la transizione energetica non sia solo una questione ambientale, ma anche un modo per superare le incoerenze economiche e geopolitiche legate ai combustibili fossili.



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