Il lato oscuro del lusso, parlano i produttori di borse griffate: “Gucci, Prada, Fendi…un modello da 1200 euro a noi viene pagato 25. Quando va bene guadagniamo abbastanza per sopravvivere”

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“Negli ultimi anni è stato fatto un errore gigante sui prezzi. Si è sbagliato ad aumentarli tanto solo perché era facile”. Sono passati ormai un paio di mesi da quando il “mea culpa” di Andrea Guerra, ceo di Prada group, ha rivelato al mondo che il re è nudo. Ovvero che la moda è in crisi. Non tanto i brand, che alla fine i conti sanno come farli tornare, quanto piuttosto tutto il suo tessuto produttivo, ovvero quelle 60 mila aziende che rappresentano l’unicità del saper fare artigianale della nostra industria, l’ossatura del “Made in Italy” che tutto il mondo ci invidia. Non dimentichiamo, infatti, che il settore moda è il secondo comparto manifatturiero italiano dopo la meccanica: con un giro d’affari che sfiora i 96 miliardi di euro, contribuisce per il 5% al pil nazionale. La crisi affonda le sue radici nell’era Covid: dopo il boom di vendite registrato nel periodo post-pandemico, i grandi brand del lusso hanno attuato una politica di rincari aggressiva, con aumenti di prezzo a doppia cifra che hanno riguardato soprattutto le borse, vero e proprio oggetto del desiderio per milioni di consumatori.

Prezzi alle stelle
Una Chanel Classic Flap è passata dal costare 2800 euro ad oltre 10.000 euro, una Lady Dior oggi sfiora i 6.000, per non parlare delle iconiche Birkin e Kelly di Hermès, che ormai costano quanto un bilocale in provincia. Una strategia che, se da un lato ha permesso di incrementare i margini di profitto nel breve termine, dall’altro ha generato un effetto boomerang, allontanando sia i clienti “aspirazionali” che i super ricchi. Sì, perché, come ben ha precisato il “re del cachemire” Brunello Cucinelli, molti di questi ricconi sono uomini d’affari che maneggiano conti e bilanci, e riconoscono che l’aumento dei prezzi non è giustificato da un reale incremento del valore del prodotto. Il risultato? Vendite crollate e commesse dimezzate per i produttori. Nel 2024 le ore di cassa integrazione autorizzate in Italia sono aumentate di oltre il 200%. Per dire, nel comparto più in crisi, quello di pelli, cuoio e calzature è cresciuta del 139%, il triplo rispetto alla meccanica. Nell’abbigliamento del 124%, nel tessile del 74. Solo nell’ultimo anno, nelle Marche hanno chiuso i battenti 700 aziende, altre 304 in Toscana, con la conseguenza di migliaia di posti di lavoro persi.

Il governo ha dovuto mettere sul piatto 110 milioni di euro per finanziare la cig, prima fino al 31 dicembre e poi estesa a fine gennaio. E ora che è scaduta già si vedono le conseguenze: Sud Salento srl, un calzaturificio che lavorava esclusivamente per Gucci, il 5 febbraio ha comunicato al personale di avere avviato una procedura di licenziamento collettivo per tutti i suoi 120 dipendenti. Confindustria Moda e Camera Nazionale della Moda hanno aperto un tavolo con il Ministero delle imprese e del Made in Italy, che ha annunciato che per il 2025 ha destinato al settore 250 milioni di euro: “Non dobbiamo perdere nessuna di queste imprese e nessun addetto”, ha detto il presidente di Cnmi Carlo Capasa lanciando un appello “a tutte le forze politiche e al Governo”.

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I numeri della crisi
A soffrire è soprattutto la filiera pelletteria che produce per i colossi come Kering ed Lvmh, che ha visto il fatturato calare dell’8,4% e l’export del 9,7% nei primi nove mesi del 2024. “Il 2024 si chiude con dati preoccupanti per il settore”, conferma Claudia Sequi, presidente Assopellettieri e Mipel. “Nei primi nove mesi abbiamo perso oltre un miliardo di euro di fatturato rispetto al 2023, oltre 100 aziende hanno chiuso e si sono persi 1.300 posti di lavoro. Il forte rallentamento della domanda di beni di lusso ha colpito duramente, considerando che una parte significativa delle produzioni italiane è destinata a brand internazionali”. Sequi spiega che il settore si trova quindi a fronteggiare non solo una crisi congiunturale ma anche pressioni strutturali: “Il settore è strettamente legato all’export, che ha subito un calo del 9,7% nei primi nove mesi del 2024, con flessioni significative in alcuni mercati chiave come la Cina (-28%) e la Corea del Sud (-10,9%)“.

Il settore tessile-abbigliamento vive una situazione altrettanto complessa. Il comparto è composto da circa 40.000 imprese che occupano oltre 400.000 addetti e, secondo le stime di Confindustria Moda, ha chiuso il 2024 con una flessione del fatturato del -6,1%, pari a 59,8 miliardi di euro. Nel terzo trimestre, il 67% delle imprese ha registrato un calo del fatturato rispetto allo stesso periodo del 2023, con il 12% che ha subito contrazioni superiori al 20%. La produzione industriale, secondo i dati Istat, ha registrato un calo del 16,1% nei primi nove mesi del 2023. L’export, che solitamente traina il settore, ha subito una contrazione dell’8,5%. Preoccupa anche il ricorso agli ammortizzatori sociali: 26 milioni di ore di cassa integrazione nei primi 9 mesi del 2024, con un aumento del 139,4% rispetto al 2023.

Come funziona il sistema dei terzisti
Dietro a questi numeri asettici e, diciamo, anche un po’ respingenti, ci sono le vite di migliaia di persone e famiglie. Ecco perché abbiamo contattato diversi titolari di aziende della Valdarno e delle provincia di Arezzo e Firenze che operano come “terzisti” per i grandi marchi della moda. Producono borse, cinture, calzature e altri articoli di pelletteria di lusso per conto di chi ha la commissione “diretta” con i brand dei gruppi francesi Kering e Lvmh. Hanno accettato di raccontarci la loro situazione, a condizione di mantenere l’anonimato. Non è la paura a trattenerli, ma la certezza che le loro aziende subirebbero ripercussioni. Sì, perché i grandi marchi che firmano le collezioni spesso non possiedono stabilimenti produttivi propri, o comunque non in misura sufficiente a soddisfare l’intera domanda. Per questo motivo, si affidano a una rete di aziende esterne, i terzisti, appunto. Questi terzisti sono realtà, spesso di piccole o medie dimensioni, altamente specializzate in specifiche fasi della lavorazione: taglio, cucito, ricamo, tintura, assemblaggio e altre ancora. Operano “in conto terzi”, ovvero realizzano prodotti per conto di altri marchi, sulla base di precisi accordi contrattuali. Il marchio committente fornisce ai terzisti i modelli, i materiali (in molti casi) e dettagliate specifiche tecniche, dettando rigorosi standard qualitativi. I terzisti, all’interno dei propri stabilimenti e con la propria manodopera, si occupano di trasformare questi input in prodotti finiti. Il marchio committente mantiene un controllo costante sulla qualità, effettuando verifiche sia durante il processo produttivo che sul prodotto finale. Una volta superati i controlli, i prodotti vengono consegnati al marchio, che li distribuisce attraverso i propri canali: negozi monomarca, rivenditori autorizzati o piattaforme e-commerce. Il terzista, a sua volta, viene remunerato secondo gli accordi stipulati. Questo sistema offre ai marchi del lusso notevoli vantaggi a spese, neanche a dirlo, degli imprenditori. Innanzitutto, garantisce flessibilità, consentendo di aumentare o ridurre la produzione in base alle fluttuazioni del mercato senza dover sostenere le spese fisse di impianti produttivi di proprietà e, soprattutto, abbattendo il costo del lavoro. Non solo: gli permette poi di fregiarsi del prestigioso marchio “Made in Italy”, ormai diventato un brand grazie all’esperienza e al know-how di aziende altamente specializzate in determinate lavorazioni. I terzisti, dal canto loro, soprattutto quelli di dimensioni ridotte, si trovano in una posizione di forte dipendenza dai committenti, con il rischio di subire pesanti ripercussioni in caso di variazioni degli ordini. Un’ulteriore criticità è legata alla filiera: a volte, i terzisti sono a loro volta delle “scatole vuote” che subappaltano a laboratori, spesso cinesi, dove si verificano le condizioni di lavoro peggiori, rendendo la filiera opaca e difficile da controllare.

“Una borsa di Gucci da 1200 euro a noi viene pagata 25”
Il primo imprenditore che intervistiamo ha un’azienda con poco più di venti dipendenti nella zona di Firenze. Lavora da oltre vent’anni come terzista per marchi di lusso, producendo accessori di alta qualità. “Non abbiamo più commesse, o comunque non abbastanza per coprire i costi. Fino a qualche anno fa ci pagavano male, ma almeno c’era lavoro. Ora invece non solo non vogliono pagare di più, ma addirittura ci tolgono gli ordini. Ci dicono che questa crisi durerà solo un paio di mesi, ma io ho sentito persone vicine ai sindacati parlare di ripresa nel 2026. Nel frattempo, molte aziende come la mia hanno già chiuso, e chi resiste è costretto a indebitarsi pesantemente”. La sua azienda, come tante altre, è fortemente dipendente da un unico grande marchio: “Il 90% del nostro lavoro viene affidato da un solo cliente. Non lavoriamo direttamente per loro, ma per un intermediario che si occupa della prima lavorazione dei materiali. A noi restano le fasi successive: l’assemblaggio, la cucitura, il montaggio. Ma è sempre il brand a controllare come lavoriamo, se siamo a norma, se rispettiamo le leggi, se paghiamo regolarmente i dipendenti. L’unica cosa che non controllano è quanto veniamo pagati. Quello è un problema nostro. Ci dicono semplicemente: ‘Questo è il prezzo, prendere o lasciare’.” La pressione economica è insostenibile. “Gucci, Prada, Fendi: ci chiedono qualità sempre più alta, ma ci pagano uguale, se non meno. Vogliono raggiungere il livello di Hermès, puntano ai cosiddetti VIC, i ‘very important clients’, quelli che spendono 50.000 euro all’anno per accessori moda. Intanto, però, noi riceviamo pagamenti da fame. Un modello venduto ora a 1.200 euro che puoi vedere sul sito Gucci, ad esempio, a chi lo produce è stato pagato 25 euro”.

“I colossi del lusso? Noi abbiamo una Fiat 500, loro hanno una Maserati”
Il secondo artigiano che ascoltiamo gestisce una pelletteria nella Valdarno, con una trentina di dipendenti. Negli ultimi anni, racconta, è stato costretto a indebitarsi per riuscire a mantenere aperta l’azienda: “Mi sono trovato in una situazione assurda. Negli anni ho dovuto comprato nuove macchine per rispettare gli standard che i brand ci impongono, ma gli ordini sono diminuiti e non riesco nemmeno a coprire le rate dei finanziamenti. Non avevo scelta. Se chiudessi, non avrei nemmeno i soldi per pagare i TFR ai dipendenti. E questa è la situazione in cui si trovano tantissimi artigiani come me: lavoriamo per non fallire”. Il problema, spiega, non è solo economico, ma anche umano. “Questa azienda è la mia vita. Sono più di vent’anni che ci lavoro. E non è solo mia: è dei miei dipendenti, delle loro famiglie. Io so che se chiudo non perdo solo il mio lavoro, ma lascio per strada decine di persone. I brand lo sanno, ed è proprio su questa nostra paura che fanno leva. Ci tengono alla fame, ma senza spezzarci del tutto. Fino a quando possono sfruttarci, lo faranno”. Negli ultimi due anni ha perso quasi un terzo della sua forza lavoro: “Nel 2022 avevo 39 dipendenti. Oggi ne ho 28, e nei prossimi mesi dovrò licenziarne altri quattro o cinque. Ho dovuto mettere alcuni in cassa integrazione a gennaio e febbraio perché non ci sono ordini. Ma per noi artigiani la cassa integrazione dura solo dodici settimane, mentre l’industria ne ha diritto per periodi molto più lunghi. Come posso sopravvivere in queste condizioni?” Questi piccoli-medi imprenditori si sentono abbandonati e trattati diversamente dallo Stato rispetto agli industriali più grandi, quelli che prendono le commissioni “dirette” che poi gli vengono girate. Le proporzioni, spiega, sono impietose. “La mia azienda fattura circa un milione di euro, con un utile di 100.000 euro. Gli intermediari diretti che lavorano per i grandi brand fatturano 22-24 milioni, con utili di 2-3 milioni. La differenza è enorme. Noi abbiamo una Fiat 500, loro hanno una Maserati”.

“A volte sembra che respiriamo solo quando loro decidono di farci respirare”
Il terzo imprenditore, titolare di una piccola azienda che produce cinture e borse di lusso, racconta un’altra faccia della crisi. Un tempo, spiega, i marchi delocalizzavano all’estero. “Andavano in Romania, in Cina, in altri paesi dove il lavoro costava meno. Ora hanno cambiato strategia. Tengono la produzione in Italia per poter scrivere ‘Made in Italy’ sui prodotti, ma ci pagano come se fossimo in Romania. Così facendo, però, distruggono la filiera artigianale“. Le conseguenze sono gravi non solo per le aziende, ma anche per il territorio: “La pelletteria è il cuore dell’economia qui, tra Firenze e Arezzo. Borse, calzature, cinture: sono centinaia le piccole aziende che danno lavoro a migliaia di persone. Negli ultimi due anni, solo nel distretto di Firenze, hanno chiuso più di cento aziende come la mia. Questo impatto è devastante”. Il rapporto con i grandi marchi è segnato da una totale mancanza di potere contrattuale: “Loro decidono tutto. Vogliono che il prodotto sia perfetto, ma senza pagarlo di più. Vogliono che siamo a norma su tutto, ma non controllano quanto veniamo pagati. Vogliono il massimo con il minimo. E noi siamo l’ultima ruota del carro. Quando va bene, guadagniamo abbastanza per sopravvivere. Quando va male, ci indebitiamo, nella speranza che qualcosa cambi. A volte sembra che respiriamo solo quando loro decidono di farci respirare”.

Il “caso Gucci” in Puglia
Dalla Toscana alla Puglia, la situazione è la stessa. Il calzaturificio Sud Salento srl, con sedi a Gagliano del Capo, Alessano e Corsano, ha annunciato il licenziamento collettivo di 120 dipendenti su un totale di 335. La decisione, comunicata ieri 5 febbraio, è una diretta conseguenza del drastico calo degli ordini da parte di Gucci, unico committente dell’azienda. “Kering [il gruppo proprietario di Gucci, ndr] ha rallentato di molto le produzioni e noi ne abbiamo subito l’impatto”, ha spiegato al Corriere della Sera Gabriele Abaterusso, responsabile amministrativo dell’azienda e sindaco di Patù. “Solo un anno fa eravamo in espansione, ora purtroppo ci troviamo nella situazione opposta”. La crisi, iniziata a fine 2023, ha colpito in particolare le linee di montaggio e finissaggio degli stabilimenti di Gagliano e Corsano. Il fatturato di questi reparti è crollato da 10 milioni di euro nel 2022 a soli 4,2 milioni nel 2024. L’azienda ha tentato di evitare i licenziamenti ricorrendo alla cassa integrazione, ma il costo, spiega Abaterusso, è diventato “esorbitante”. “Queste 120 persone sono in cassa integrazione da 15 mesi. Proseguendola avremmo compromesso la capacità dell’azienda”. Abaterusso sottolinea che la crisi è legata sia a fattori esterni, come il rallentamento della domanda globale del lusso e l’instabilità dei mercati russo e cinese, sia a dinamiche interne al gruppo Kering. Non è un caso, infatti, che la notizia arrivi in concomitanza con il cambio di direzione creativa del brand: Gucci ha annunciato proprio giovedì che Sabato De Sarno non sarà più il direttore creativo.

E il 2025?
Cosa aspettarsi quindi per l’anno appena iniziato? Le previsioni per il 2025 rimangono avvolte nell’incertezza. Il 74% degli imprenditori del settore tessile-abbigliamento si aspetta una ripresa solo nel corso dell’anno, mentre il 19% la posticipa addirittura al 2026. Solo un timido 7% vede segnali di ripresa già in atto. Cruciale sarà l’evoluzione dello scenario geopolitico, con i due con i due conflitti in Ucraina e Israele ma soprattutto con i provvedimenti della nuova amministrazione Trump sui dazi. Più annunci roboanti che fatti, per ora. L’Ocse stima un +4,7% per il pil cinese e un +2,4% per quello statunitense, mentre l’Eurozona dovrebbe accelerare, toccando un +1,3%.

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Per la pelletteria, in particolare, Claudia Sequi prevede un miglioramento a partire dalla seconda metà del 2025, ma molto dipenderà dall’andamento della domanda globale, dalla risoluzione delle tensioni geopolitiche e dalle politiche di supporto del Governo. “Per rilanciare il settore, sarà fondamentale lavorare su una nuova politica industriale e fiscale che renda le nostre imprese più competitive”, conclude Sequi. “Sarà necessario ripensare il sistema per attrarre le produzioni di brand dei segmenti del lusso accessibile, oggi spesso svolte in altri Paesi dove qualità e sostenibilità sono ben al di sotto dello standard italiano”.



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