all’Eni non si sono accorti che il business dell’elettrico è fallito – Linea Italia Piemonte

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Il cracker è il cuore pulsante degli stabilimenti della petrolchimica. Dal cracking della virgin nafta si ottengono diversi composti chimici, fra i quali etilene, propilene, butadiene, che costituiscono le alimentazioni degli impianti di polimerizzazione per produrre i corrispondenti polimeri che necessariamente devono essere limitrofi al cracker. Senza il cracker il complesso petrolchimico di Brindisi non ha alcuna ragione di esistere e la sua fermata comporterà inevitabilmente la chiusura dell’intero sito, con la distruzione di un patrimonio di eccellenza industriale e posti di lavoro altamente qualificati.

Inoltre lo stato italiano brucerà centinaia di milioni di Euro dei contribuenti per costruire accumulatori che non serviranno a nulla, perchè anche in Europa la fasulla ideologia pseudo-ambientalista si sta sgretolando ed il vento che soffia dall’America ne sta accelerando la rovina.

La chiusura del sito di Brindisi obbedisce al “Piano di trasformazione, decarbonizzazione e rilancio di Versalis” e prevede 2 miliardi di euro di investimenti cosiddetti “green” che devono essere, come recita il comunicato dell’ENI, “coerenti con la transizione energetica e la decarbonizzazione dei vari siti industriali, nell’ambito della chimica sostenibile ma anche della bioraffinazione e dell’accumulo di energia”. L’obiettivo è la riduzione delle emissioni di CO2 di circa 1 milione di tonnellate. Il Piano prevede la cessazione delle attività degli impianti cracking a Brindisi e Priolo e del polietilene a Ragusa.

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Risulta che Versalis voglia lasciare in marcia l’impianto di produzione del polietilene e pertanto l’etilene che dovrà alimentare l’impianto di polimerizzazione dovrà essere necessariamente importato dall’estero, cioè, molto probabilmente dalla Cina. Anche l’impianto di polipropilene di LyondellBasell dovrà importare dall’estero il propilene che sino ad ora veniva generato dall’impianto di cracking.

Allora sorge la domanda: ma se ENI chiude il cracker di Brindisi perché la produzione di etilene provoca emissione di CO2 e poi importa l’etilene dalla Cina, dove sta la decarbonizzazione? L’Eni ha solo trasferito le emissioni di CO2 dall’Italia ad un altro Paese produttore, impoverendo l’Italia per arricchire altre nazioni.

Dagli impianti petrolchimici escono la materie prime per produrre plastiche, elastomeri ed altri materiali sintetici necessari per la moderna società del benessere e l’Italia non può permettere che quei beni debbano essere importati da nazioni dove governano regimi autoritari e potenzialmente ostili. Inoltre l’industria petrolchimica è di interesse nazionale perché è ad altissimo contenuto scientifico e tecnologico e ciò vuol dire creazione di posti di lavoro ad alta qualificazione: ingegneri, dottori, operai specializzati. Senza considerare le attività dell’indotto, che vivono di forniture all’industria petrolchimica. Ed anche i commercianti: ristoratori, negozi di abbigliamento eccetera, che lavorano grazie agli stipendi dei lavoratori delle fabbriche.

Gli investimenti alternativi dell’Eni legati alla cosiddetta decarbonizzazione come riciclo delle plastiche e produzione di batterie saranno inutili sprechi dei soldi dei contribuenti non solo perché totalmente privi di giustificazione economica, ma anche perché i grandi fondi di investimento internazionali come BlackRock o Vanguard stanno abbandonando il business del green e negli USA il DOGE di Musk sta rivelando le corruzioni che si nascondevano dietro USAID, un’agenzia governativa statunitense che sulla carta doveva fornire l’assistenza allo sviluppo economico e umanitario in tutto il mondo, ma che in realtà faceva azione di lobbismo per le ideologie green e woke. Pertanto i politici, privati dal “sostegno economico” del mondo del business e di USAID, non avranno più convenienza a sperperare i soldi dei contribuenti per incentivare iniziative industriali strampalate, come la gigafactory di Britishvolt, fallita miseramente dopo aver drenato enormi contributi pagati dai cittadini inglesi.

Quindi, se questo governo si dichiara difensore dell’interesse nazionale dovrebbe imporre l’annullamento dell’attuale piano di decarbonizzazione dell’ENI, riscrivendone un altro che tenga conto del fallimento del New Green Deal imposto da Von der Leyen, che in realtà è un pretesto per imporre determinati business che nulla hanno a che vedere con la difesa della natura.

Alcune proposte del piano di rilancio di Versalis, come le bioraffinerie (produzioni HVO) e l’oleochimica sono interessanti ed incontrano lo spirito di una società moderna che non vuole dipendere dallo spreco delle risorse fossili e valorizzare le proprie risorse naturali. La chimica del petrolio e la chimica verde che usa come materie prime oli vegetali e i polisaccaridi possono convivere assieme ed essere sinergiche l’una con l’altra.

Un esempio è il biodiesel. L’obbligo di aggiungere il 7% di prodotti di origine vegetale come biodiesel o HVO permette di utilizzare i residui oleosi e le eccedenze agricole come l’olio di colza. Si può ad esempio incrementare l’aliquota obbligatoria di biocombustibili sino ad oltre il 20% vol per ridurre la dipendenza da petrolio. Si possono immaginare altri incentivi per favorire la chimica verde, ma le proposte devono essere fatte in modo razionale ed intelligente, senza inseguire torbide ideologie fasulle.

Se è pur vero che la petrolchimica è in perdita ed ha perso solo negli ultimi anni 3 miliardi di euro, la colpa non è della gestione industriale dei manager Versalis, ma dei politici che hanno imposto una demenziale transizione energetica accelerata facendo schizzare in alto i costi dell’energia, i quali penalizzano fortemente l’industria petrolchimica, fortemente energivora. Ciò vale soprattutto per gli impianti di cracking dove si rompono i legami covalenti degli idrocarburi. E’ quindi inevitabile che i costi energetici incidano pesantemente sul bilancio economico.

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Il primo intervento che dovrebbe fare il governo è di concordare con i dirigenti di Versalis un prezzo “patriottico” dell’energia e del metano utilizzati dagli impianti chimici e siderurgici di interesse nazionale, che possa mantenere competitivi gli ultimi impianti petrolchimici italiani. Questi pochi impianti rimasti potrebbero essere il punto di partenza per una rinascita industriale dell’Italia ed un ritorno alle glorie del passato, quando la Montedison era il quarto gruppo chimico del mondo. Per avere un’idea di cosa fosse l’industria chimica italiana nei tempi felici basta questo dato: nell’anno 1975 la Montedison aveva un fatturato globale di 5,41 miliari di dollari (del 1975 !) ed aveva 150.555 dipendenti. Con la Fiat, la Montedison, l’ENI, L’IRI e l’Olivetti, l’ Italia era la quarta potenza economica mondiale dove si produceva di tutto: dai chiodi ai televisori.

Il piano di rilancio di Versalis dovrebbe essere rivisto in profondità, eliminando tutte le iniziative farlocche legate chiaramente al business green, come riciclo plastica e produzioni di accumulatori (questa è roba da cinesi) e valorizzando, come detto prima, la vera chimica verde.





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