La premier Giorgia Meloni è scomparsa. Da giorni, nonostante diverse tempeste si siano addensate sul suo governo, non proferisce sillaba, non si fa vedere, non comunica. Ci sono diversi motivi che spiegano il suo silenzio: il sempre più imbarazzante caso Santanché, quello per certi versi ancora più increscioso del protocollo con l’Albania che la maggioranza degli italiani, stando ai sondaggi, considera ormai un pozzo senza fondo dove buttare quattrini a fondo perduto, un tentativo, certo timido ma reale, di disgelo che la magistratura che gli alleati, per una volta uniti e concordi, sgambettano come possono. Però nessuna di queste buone ragioni compete con il vero dilemma che costringe Giorgia al mutismo: l’impossibilità evidente di restare nel mezzo fra tra Trump e l’Unione europea e dunque anche tra l’establishment europeo ben rappresentato dall’amica e alleata Ursula e la destra continentale dei meno intimi Orbàn e LePen ma anche dell’alleato Salvini.
L’incidente già di per sé serio con la Corte penale internazionale dell’Aja va inquadrato in questa cornice per afferrarne in pieno la gravità. Sulle sanzioni contro la Cpi decise da Trump Ue e Usa sono già ai ferri corti e il dibattito al Parlamento europeo conferma che di spazio per chi non vorrebbe stare né da una parte né dall’altra, o meglio con entrambi i contendenti, ne ne è già molto poco. Il duello tra il governo italiano e la Cpi sul caso Almasri è capitato proprio in contemporanea con l’offensiva di Trump, costringendo la premier italiana a sbilanciarsi dalla parte del tycoon- presidente più di quanto non avrebbe voluto.
La firma negata dall’Italia alla dichiarazione congiunta dei 79 Paesi Onu contro le sanzioni, caso unico tra i grandi Paesi europei Gran Bretagna inclusa, è un macigno. D’altra parte molto difficilmente, nel pieno di un contenzioso durissimo come quello in corso dopo la liberazione di Almasri, la premier avrebbe potuto fare scudo alla Cpi. Senza contare la posizione opposta che avrebbe immediatamente assunto il trumpista Salvini e che certo non avrebbe giovato all’immagine del governo e della destra come coalizione.
Il messaggio informale che ieri il ministro Nordio, su spinta precisa e tassativa di palazzo Chigi, ha inviato alla Corte è un tentativo di tirarsi fuori dal vicolo cieco. Il ministro, dopo aver tuonato contro la Corte, minacciato di chiedere un’indagine sul suo funzionamento, rivendicato il diritto di ignorare le sue disposizioni in quanto ‘non passacarte‘ propone ora ‘consultazioni‘ per avviare una ‘ comune riflessione sulle criticità’ emerse con il caso Almasry in modo da evitare che si ripetano. È un’offerta di pace, o almeno di tregua, senza però tornare sulle proprie posizioni.
Le ‘criticità’ in tutta evidenza riguardano le dinamiche con le quali è stato spiccato il mandato di cattura internazionale, non le scelte del governo italiano. Né il ministro rimette in discussione l’affermazione in base alla quale sta a lui decidere se dare seguito ai mandati della Corte o meno ed è proprio questo il contenzioso principale dal momento che per questa via il ruolo della Cpi risulta drasticamente ridimensionato. In ogni caso le opposizioni hanno annunciato che presenteranno una mozione di sfiducia nei confronti del guardasigilli.
Ma nella situazione delicatissima che si è già creata e che diventerà molto più nevralgica nei prossimi mesi la Ue può avere interesse a fingere che la mossa italiana equivalga a un ripensamento. La presidente von der Leyen ha assunto una posizione molto ferma nei confronti dei dazi americani. Ha scelto di tenere testa all’inquilino della Casa Bianca e al gruppo di pasdaran che lo attornia. Ma la stessa von der Leyen sa perfettamente di camminare su una fune tesa. Il rischio che l’unità europea si sgretoli e che ognuno tratti per sé, decretando così quel tramonto dell’Unione a cui mira la Casa Bianca è fortissimo e la posizione dell’Italia è fondamentale, sia per l’importanza che ha come terzo Paese dell’Unione, sia perché è oggi il solo governo solido nel gruppo dei Paesi principali.
Il problema è che Meloni non ha alcuna intenzione di fare la parte della figlia prodiga, e probabilmente non potrebbe neppure se volesse. Ieri a Strasburgo le pressioni perché l’Italia firmi la dichiarazione congiunta in difesa della Cpi sono state esercitate in modo discreto. La prevista discussione è slittata a venerdì prossimo, nel quadro del dibattito generale sulle relazioni tra Usa e Ue. Ma in quell’occasione l’Italia, in un modo o nell’altro, dovrà scoprire le sue carte e la trincea del silenzio nella quale la premier si è messa al riparo dovrà essere varcata.
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