Il padre di Vincent Plicchi, il tiktoker suicida in diretta si oppone alla richiesta di archiviazione della Procura di Bologna: un duro atto verso chi sostiene che non si possa indagare per istigazione al suicidio.«Che messaggio si lancia a chi finisce vittima dei cyberbulli, non può passare questa impunità»
Continua la battaglia giudiziaria dei familiari di Vincent Plicchi, il 23enne bolognese che il 9 ottobre 2023 si tolse la vita impiccandosi in diretta su Tik Tok, dopo essere rimasto vittima di una «shitstorm», una tempesta di odio social fomentata da altri tiktoker per una falsa accusa di pedofilia.
Davanti al giudice Alberto Ziroldi l’avvocato Daniele Benfenati, che rappresenta la famiglia di Vincent, ha discusso l’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dalla pm Elena Caruso. Un duro atto contro l’operato della Procura, che scrive di non aver potuto identificare gli autori dei messaggi e di non poter quindi ipotizzare il reato di istigazione al suicidio.
Ma nell’opposizione dei familiari si evidenzia invece che «limitare le indagini a quattro ordini di acquisizione destinati a social network con sedi dall’altra parte del mondo e abituati a fare ostruzionismo contro tali istanze, equivale a mandare un messaggio di impunità a tutti i cyberbulli: sarà sufficiente avere più account o più indirizzi IP per seminare terrore e, sia consentito, morte».
Per questo, si legge nell’atto, pur immaginando le difficoltà ad ottenere provvedimenti di carattere internazionale nei confronti di persone come «l’ideatore del disegno criminoso, reo confesso», che risulta essere cittadino statunitense, i familiari si aspettavano che si facesse il possibile per identificare almeno le persone italiane coinvolte, e ora auspicano che queste persone, nel frattempo identificate grazie alle indagini svolte dalla famiglia di Vincent, siano sentite come persone informate sui fatti ed eventualmente indagate, se dovessero emergere elementi a loro carico.
Il fascicolo nasceva da un esposto della famiglia di Vincent nel quale, su impulso del padre Matteo, si fornivano già almeno cinque nomi di persone dietro ai nickname, uno statunitense, un’austriaca e tre italiani che avrebbero preso parte alla tempesta di odio social. «Si sperava fossero presi in maggiore considerazione» si legge nell’atto di opposizione. E invece «nessun atto di indagine è stato compiuto per rintracciare» neppure l’italiano, di cui sono stati forniti generalità e residenza che aveva pubblicato video infamanti contro Vincent e dopo la sua morte «si scusava pubblicamente».
Il gip Alberto Ziroldi si è riservato la decisione. Al termine dell’udienza il padre del giovane si è detto fiducioso che il giudice riapra la indagini. Questo perché, afferma, «è tutto talmente evidente: queste persone hanno ammesso le loro responsabilità online e anche a me, scrivendomi subito dopo l’accaduto».
«Finora – prosegue – solo la Procura ha avuto i paraocchi, perché l’unica attività di indagine che ha svolto è stata una richiesta sbagliata di quattro nickname ai social». Così facendo, si sfoga il padre del ragazzo, «che messaggio si dà ai giovani e alle famiglie, quando si dimostra di non provare in nessun modo a proteggerli da persone che da due anni magari stanno reiterando lo stesso comportamento, perseguitando altri?».
«Abbiamo ribadito la necessità – osserva Benfenati – di svolgere nuove indagini non solo sull’ipotesi di reato di istigazione al suicidio, ma anche, eventualmente, sul cyberstalking, diffamazione e minacce gravi. Ci sono quattro-cinque italiani di cui abbiamo detto nomi e cognomi, come siamo arrivati noi ad identificare queste persone può farlo la Procura».
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