Per i civili la guerra non finisce mai

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Si celebra oggi la Giornata nazionale delle vittime civili delle guerre e dei conflitti: istituita nel 2017, la ricorrenza ha l’obiettivo di sollecitare attenzione e impegni nei confronti di un dramma dai contorni e le dimensioni sempre più angoscianti:dal 2023 al 2024 il numero di persone civili uccise o ferite da armi esplosive nelle aree popolate è aumentato del 67%. Quanto insufficiente e incostante sia l’attenzione a questo dramma, lo spiega Roberto Serio, segretario generale dell’Associazione vittime civili di guerra – Anvcg.

«Siamo», spiega Serio, «in un momento storico in cui alcuni teatri di guerra sono più vicini a noi e fanno sì che l’opinione pubblica presti più attenzione e si interroghi sulle sofferenze delle popolazioni. Inoltre, la guerra oggi è praticamente in diretta, perché chi subisce le conseguenze più gravi ha gli strumenti per documentarla in prima persona, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. Tuttavia vedere non sempre significa prestare attenzione. Un’ attenzione che comunque tende a scemare con il tempo o quando le ostilità cessano, anche se temporaneamente. C’è infatti la percezione, assai diffusa, che una volta terminata la guerra, finirà anche il dramma dei civili coinvolti, ma non è così. La storia delle vittime civili di guerra italiane dimostra ampiamente che la guerra ha degli strascichi per moltissimi anni sulla vita delle comunità e delle persone, difficili da risanare senza un intervento esterno. Pensiamo anche agli ordigni bellici inesplosi, che restano disseminati sul terreno e non cessano di essere letali per le persone e per la ripresa economica. Eppure, questa eredità della guerra, dal nostro punto di vista, non suscita lo stesso livello di attenzione mediatica».

Quali sono, oggi, le zone in cui si registra la maggior percentuale di vittime civili?

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Il tema della registrazione delle vittime di guerra è legato ad una pluralità di fattori, in primis l’adeguata copertura del conflitto e la presenza di operatori umanitari in loco, che possano fare le veci dello Stato nella registrazione dei morti. Ma comporta anche la necessità di chiarire un punto fondamentale: chi sono le vittime civili di guerra? Sono solo i morti e i feriti? Noi, dal nostro punto di vista, consideriamo vittime civili anche i sopravvissuti, i mutilati, gli sfollati, gli orfani, le vedove e le vittime degli ordigni bellici inesplosi: tutte persone che a causa della guerra sono state private dei loro diritti e non possono vivere la propria vita appieno. Una definizione così ampia, viene da sé, comporta delle difficoltà di registrazione sul campo. È importante, quindi, ricordare che i dati vanno letti con attenzione e con questa consapevolezza. Premesso questo, l’Anvcg ritiene affidabili i dati forniti dalla Campagna internazionale contro le armi esplosive nelle aree popolate, guidata dalla coalizione di organizzazioni della società civile INEW, a cui abbiamo aderito nel 2017. Sebbene vengano registrati i morti e i feriti, la campagna documenta quanto più possibile gli impatti della guerra nel tempo e nello spazio. Secondo questa logica, nel 2024 i Paesi in cui si sono registrate più vittime civili sono quelli in cui le guerre sono state prevalentemente combattute nei centri abitati. Gaza è al primo posto, contando il 39% del totale delle vittime civili. A seguire ci sono Ucraina, Libano, Sudan e Myanmar. Tutti Paesi in cui le operazioni militari con esito più sanguinoso si sono svolte nei centri abitati. L’urbanizzazione della guerra sarà sempre più evidente nei prossimi anni.

Quali azioni vengono attualmente messe in campo per proteggere le popolazioni nelle zone di guerra o di conflitto?

Quando si parla di protezione dei civili nei conflitti armati, si pensa principalmente agli aiuti umanitari, ai corridoi umanitari, alle missioni di peacekeeping: tutte attività essenziali per mantenere in vita le persone durante il conflitto e immediatamente dopo. Altrettanto importante è però l’attività di advocacy internazionale per creare e rafforzare i pilastri legali di questa protezione. Il motore propulsore di questo tipo di attività, va detto, sono le organizzazioni della società civile di tutto il mondo, che si impegnano per l’istituzione e implementazione di norme che riaffermano i principi del diritto internazionale umanitario. La verità è che gli strumenti di protezione esistono, ma oggi assistiamo sempre più alla loro negazione in nome di obiettivi strategici.  Per questo, in occasione della Giornata Nazionale, intendiamo ribadire l’inviolabilità del principio di umanità alla base del diritto internazionale umanitario e delle convenzioni specifiche che da esso discendono. Questa posizione non intende essere divisiva, ma promotrice di unità, come dimostrato dall’adesione di circa 300 Comuni di ogni colore politico, delle Regioni, nonché delle principali istituzioni centrali, che anche quest’anno si illuminano di blu per le vittime civili di guerra.

Quali azioni dovrebbero e potrebbero invece essere messe in campo? Ha in mente delle “buone prassi”?

Le campagne di disarmo umanitario rientrano pienamente nelle buone prassi, perché puntano a rafforzare il quadro legale di protezione attraverso strumenti normativi, promuovendo trattati e convenzioni che istituiscono obblighi, tra gli Stati che aderiscono, ad assistere le vittime di guerra. Inoltre, questo tipo di campagne ha il pregio di coinvolgere anche le vittime di guerra, rendendole protagoniste di decisioni che riguardano il loro futuro. Per chi opera sul campo sono importanti anche le attività di risk education e di victim assistance. Quando lo scopo è lo stesso c’è spazio per tutti, per un’azione collettiva che possa incidere sulle vite delle popolazioni travolte da guerre e conflitti.

Qual è l’atteggiamento dei Governi e delle istituzioni rispetto a questo dramma? Ci sono buoni esempi? E cattivi esempi?

La Dichiarazione politica internazionale sulle armi esplosive nelle aree popolate, adottata nel 2022 e ad oggi sottoscritta da 88 Paesi, è certamente un buon esempio. Costituisce, infatti, il primo documento internazionale che riconosce la specificità dei danni umanitari causati dai bombardamenti e impegna gli Stati aderenti ad assistere le vittime. Tra gli attuali firmatari della Dichiarazione ci sono Paesi molto diversi tra loro sotto tanti aspetti, ma accomunati dallo stesso obiettivo di protezione. L’Italia, è stata tra i primi firmatari; avendo una forte tradizione diplomatica, ha tutte le caratteristiche per essere in prima linea sulla protezione dei civili. Ci sono poi anche le azioni concrete dei Governi: penso a Food for Gaza del Ministero degli Esteri insieme a World Food Program eall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura ed altre organizzazioni italiane.  Tra i cattivi esempi, basta ricordare le innumerevoli volte in cui vengono disattesi gli impegni di un accordo internazionale – come il Trattato per la messa al bando delle mine o la Convenzione sulle cluster munitions – dagli stessi Stati che vi hanno aderito. Con la campagna “Stop alle bombe sui civili”, chiediamo il rispetto delle norme del diritto internazionale umanitario, nonché l’universalizzazione dei trattati e delle convenzioni internazionali per la protezione e l’assistenza dei civili nei contesti di guerra.

Foto Jehad Alshrafi/Associated Press/LaPresse 

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