Venezia, anno 1268. Settecentocinquantasette anni fa. Si elegge per la prima volta il Doge della Serenissima. Come fanno, i Veneziani? Si affidano al sorteggio. Non a un sorteggio qualsiasi, come quello del gioco del Lotto, ma a «un sistema» di sei sorteggi consecutivi. I membri del Gran Consiglio, cioè, votano e, contemporaneamente, a ogni votazione, procedono a un sorteggio. Elezione e sorteggio non rappresentano più una contraddizione, ma un congegno virtuoso, descritto benissimo da Mario Ascheri nel suo libro «Le città -Stato» (Il Mulino).Â
Con l’ultimo dei sei sorteggi si estraeva un solo nome. L’estratto però prima di diventare Doge veniva «processato» e chiamato a difendersi. Dopo di che, si votava di nuovo. Per poter essere eletto Doge, l’estratto doveva ottenere almeno 25 voti favorevoli. Altrimenti si estraeva un altro nome e si ricominciava la procedura.
Erano fessi, i Veneziani? O forse avevano tempo da perdere?
Al contrario, erano saggi e, diremmo oggi, abbastanza scafati per capire che non esiste un sistema elettorale perfetto. E che un sorteggio, per quanto ingegnoso e magari anche un po’ macchinoso, può rivelarsi efficacissimo. Almeno per limitare i danni.
E veniamo al Csm, il Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno dei magistrati, che da anni non gode di buona salute e che nei momenti più critici si è rivelato un organismo che ha assorbito tutti i vizi della politica peggiore, a volte addirittura amplificandoli, e così affogando in una logica ancora più lottizzata, più correntizia, più spartitoria, di mero potere. È inutile girarci intorno. Così com’è, il Csm non va. Fa solo male alla giustizia e alla democrazia. E tuttavia, nonostante ognuno se ne lamenti, nessuno — a destra, al centro e a sinistra — vuole davvero riformarlo. E ogni «dibattito» su una questione così centrale si riduce a finzione, pura «ammuina», e alla fine tutto resta com’è.
Tempo fa, quando era il potente presidente dell’Associazione nazionale magistrati (il «sindacato» delle toghe), l’ex magistrato Luca Palamara minacciò «qualsiasi forma di protesta, anche la più dura» contro il sorteggio per il Csm. Nessuno immaginò che i magistrati potessero incatenarsi ai cancelli dei palazzi di Giustizia o sfilare in corteo come i metalmeccanici in cassa integrazione, ma l’avvertimento di Palamara funzionò e di sorteggio non si parlò più. Poi Palamara è stato radiato dalla magistratura per le note vicende e tutti quelli che lo omaggiavano, o gli chiedevano favori, o con lui stringevano alleanze correntizie tutt’altro che volte a premiare il merito dei singoli magistrati, hanno finto di averlo mai conosciuto.
L’articolo 104 della Costituzione del 1948 sulla composizione del Csm è semplice e chiaro. Non si capisce cosa impedisca di raccordarlo con il modernissimo sistema di sorteggio veneziano del 1268.
Allo stesso modo, tutta questa «refrattarietà » dei magistrati nei confronti della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, con relativi scenari apocalittici sulle sorti della giustizia, è quanto meno incomprensibile. La unicità delle carriere (il contrario della separazione) è stabilita dal decreto Mussolini-Grandi del 1941. E ciò avvenne non certo per amore della autonomia e indipendenza dei magistrati. Quindi è stupido, se non manipolatorio, far passare la separazione delle carriere come «una cosa di destra». Al contrario, e se proprio volessimo applicare anche a questo tema lo schema destra-sinistra, la separazione delle carriere sarebbe «una cosa di sinistra», liberale e democratica. Tra l’altro, la volevano insistentemente anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E in questi giorni ci è arrivato finanche Antonio Di Pietro, che quindici (15) anni fa durante una manifestazione pubblica mi lasciò polemicamente da solo su un palco perché stavo esponendo pari pari ciò che state leggendo adesso. Qualcuno obietterà che questi ultimi due non sono argomenti propriamente giuridici. È vero. Intanto però sono dati di fatto, che non vengono, soprattutto il primo, sottolineati mai abbastanza. Come perché? Perché il «dibattito» è ancora fermo alle toghe rosse e bianche e blu, mentre, come sosteneva il giurista e deputato radicale Mauro Mellini, la correntocrazia togata ha prodotto il Pum, il Partito unico dei magistrati, pronto a fare corporativamente quadrato per difendere sé stesso con «qualsiasi forma di protesta, anche la più dura», proprio come minacciava Palamara.
1 febbraio 2025
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