Severance non è una serie: è un documentario

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La seconda stagione della serie è uscita pochi giorni fa e scrivo queste righe prima di guardarla. Il fatto è che avendo amato la cruda lucidità della prima stagione, ho timore che in questa seconda parte la fantascienza prenda il sopravvento e finisca per fagocitare il ritratto affilato che la serie fa della nostra società lavoro-centrica.

Sì perché, malgrado la premessa sia evidentemente di natura fantascientifica, la serie somiglia in maniera disturbante ad un documentario delle nostre vite – e non è certo una coincidenza che la storia sia ambientata ai giorni nostri*.

Per chi non ha visto la serie, Severance – “Scissione” in italiano – segue le vicende di Mark S. e dei suoi colleghi, i quali lavorano per una grossa multinazionale e hanno accettato di sottoporsi ad un’operazione chirurgica per scindere la propria coscienza in due entità non comunicanti. Così, di ciascuno esistono ora due versioni: una “interna”, che si attiva solo quando entra in ufficio e una “esterna” che vive solo fuori dall’ufficio, nel “tempo libero”.

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Il portale, nella serie, è rappresentato simbolicamente dall’ascensore. Mark-esterno entra nell’abitacolo con i suoi pensieri e durante il tragitto subisce la sua trasformazione in Mark-interno. Un’esperienza che, se ci soffermiamo un attimo, non è così distante dalla nostra. A me – e non credo di essere il solo – è capitato di farne viva esperienza più volte. Arrivando in ufficio, l’ingresso in ascensore agiva come un interruttore che mi faceva abbandonare i pensieri da “Laurent-esterno” e si impostava sui pensieri lavorativi: task da completare, scadenze da rispettare, riunioni, appuntamenti, ecc.

Le due versioni di Mark S. nella sigla di Severance: una in giacca e cravatta vive solo di giorno, l’altra in pigiama vive solo di notte

Questa divisione della vita in compartimenti stagni permette a Severance di mettere subito a nudo la quantità esorbitante di tempo che riserviamo al lavoro: otto ore al giorno, ogni santo giorno. E non otto ore qualsiasi, ma le otto ore in cui disponiamo di maggiori energie fisiche e mentali. Quando Mark-esterno si riattiva, fuori è già buio e anche se non ricorda cosa abbia fatto durante la giornata, ne porta comunque i segni: la stanchezza, lo stress. Per sua fortuna, abita vicino l’ufficio e non è costretto anche a imbarcarsi in una lunga e penosa traversata verso casa nel traffico delle diciotto o nella calca di un treno regionale, come invece tocca a molti di noi.

A fine giornata, prosciugati da una giornata di lavoro, non ci restano che pochissime ore, quattro o cinque al massimo, quando non si decide di rosicchiare tempo al sonno. E dopo aver preparato la cena, averla consumata e aver fatto i piatti, le energie residue – sempre che non si abbiano anche figli da accudire – bastano appena per crollare sul divano e mettere un film alla tv.

Questo è ciò che rimane della nostra vita “esterna”. Questo è quanto ci viene lasciato a disposizione per coltivare i nostri interessi, costruire le nostre relazioni e inseguire il pieno sviluppo della nostra persona, come vorrebbe l’articolo 3 della nostra Costituzione.

Severance ci pone davanti all’evidenza brutale che la maggior parte della nostra vita non ci appartiene, ma appartiene ad un’altra versione di noi: il nostro io-lavoratore. Una sorta di vita parallela consegnata mani e piedi ad altri.

Ed è concentrandosi su questa vita parallela e sulle sue storture che la serie riesce a disegnare un quadro fedele quanto feroce della società che abitiamo.

Severance ci mostra il lavoro per quello che è: una realtà alternativa. Un ambiente nel quale veniamo sottoposti – e ci sottoponiamo! – ad uno schema di regole e relazioni in cui si arrivano ad accettare comportamenti che mai potremmo tollerare fuori, nella nostra vita reale.

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La prima regola che accettiamo, specialmente nei servizi, è quella di dedicare otto ore del nostro tempo a svolgere attività spesso prive di senso che – proprio come la criptica “rifinitura dati” di Mark S. e colleghi – si esauriscono nella dimensione astratta di un computer o di un cloud. Compiti spesso autoricorsivi che non hanno nessuna ricaduta tangibile sul mondo reale. Ed è ironico registrare che malgrado ciò veniamo continuamente invitati ad eccellere in questi bullshit jobs per conquistare premi produzione – quando va bene – o più di frequente una semplice pacca sulla spalla, che nella serie prende la forma di grotteschi premietti: una caricatura, tre waffle, cinque minuti di ballo sfrenato, ecc.

Severance non è una serie: è un documentarioSeverance non è una serie: è un documentario

Dylan G., collega di Mark S., esibisce con orgoglio la trappola cinese ottenuta in premio per le sue prestazioni

In questa realtà alternativa e surreale tanto quanto il “piano della scissione” di Severance, ci ritroviamo a desiderare di distinguerci in una serie di attività perlopiù inutili e inservibili nel mondo reale allo scopo di ottenere la considerazione del nostro ambiente di lavoro, e specialmente quella dei nostri superiori. Da questi capi – ma pure dai clienti per i freelance o per chi ha la sfortuna di occuparsi di relazioni con il pubblico – accettiamo di sopportare sfuriate, minacce, violenze verbali e psicologiche. Mark-interno subisce commenti degradanti, minacce di demansionamento, persino il lancio di oggetti. E quando lui o uno dei suoi colleghi si macchiano di gravi colpe – che in un altro contesto non solo non sarebbero gravi ma potrebbero addirittura non essere affatto colpe – vengono accompagnati nella “stanza del personale” dove vengono costretti ad umiliarsi sotto la stretta sorveglianza del supervisore Mr. Milchick.

In questo contesto si crea un intricato sistema di relazioni, rivalità, soggezioni, piccoli torti e meschinità di vario genere. Ma anche di più piacevoli affinità, confidenze e amicizie. Un micro-cosmo che diventa il tutto il nostro mondo e occupa la nostra mente per l’intera giornata: la fotocopiatrice difettosa, il collega che si è messo in malattia, quello che lavora male, la riunione col cliente. Eppure questi eventi e questi rapporti interpersonali nascono e muoiono all’interno del luogo di lavoro, vi rimangono confinati, non ne escono mai. Tanto che basta cambiare lavoro per dimenticarli tutti – come Petey, il miglior amico di Mark sul lavoro, che dal giorno alla notte svanisce letteralmente nel nulla quando lascia il lavoro.

Nel profondo sappiamo benissimo che si tratta di una vita artificiale, illuminata dalla luce artificiale dei neon al soffitto. Nulla di ciò che accade sul lavoro è reale, altrimenti quel che abbiamo fatto durante la giornata manterrebbe una qualche rilevanza anche nella nostra vita fuori dalle mura dell’ufficio. Ma sappiamo bene che proprio come per Mark S., la nostra vita esterna può fare tranquillamente a meno di sapere cosa abbiamo fatto al lavoro e perché. Così, Severance ci costringe ad accorgerci che il lavoro non è altro che una grande recita, un simulacro della vita reale, costruito su relazioni di cartapesta. Pare però che non abbiamo altra scelta che partecipare. E allora, dato che praticamente la nostra intera esistenza deve svolgersi in questi luoghi, stiamo al gioco. Indossiamo la maschera e proiettiamo la nostra identità sul palcoscenico. Ologrammi di noi, che modelliamo giorno dopo giorno diventando persone leggermente diverse, ogni tanto molto diverse, talvolta persino irriconoscibili se viste con gli occhi di chi conosce solo il nostro io-esterno.

Severance non è una serie: è un documentarioSeverance non è una serie: è un documentario

Il ritratto consegnato a Mark-interno come premio produzione sembra volergli ricordare la sua reale natura

Severance smaschera senza pietà la completa assenza di significato di questa realtà olografica, facendosi beffe dei nostri patetici tentativi di compensare l’insensatezza attraverso l’adesione alla “cultura aziendale”, o di sublimare il nostro bisogno di calore umano attraverso feste aziendali, eventi di team building e altre iniziative più o meno spontanee come portare i pasticcini il giorno del nostro compleanno. Insomma, è evidente che cerchiamo di infondere vita in qualcosa che vivo non è.

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Derubati di tempo ed energie da dedicare alla nostra vita privata, derubati financo della luce del sole, che non vediamo mai né mentre siamo al lavoro né quando ne usciamo, tentiamo di sopperire all’immobilismo della nostra vita-esterna con un dinamismo posticcio nell’universo parallelo del lavoro. Ma anche qui non si tratta che di un’illusione, raccontata alla perfezione dagli interminabili corridoi che Mark e colleghi si trovano ripetutamente a percorrere nella serie. Un labirinto che non li porta mai realmente da nessuna parte. Una ruota per criceti in cui i piccoli eventi insignificanti diventano gli unici avvenimenti, o quasi, che portano una qualche forma di novità nella nostra esistenza. Al punto che ci troviamo a parlarne persino a casa o al bar con gli amici.

Il lavoro, così, tracima e allunga la sua ombra anche sul poco spazio che rimane alla nostra vita privata. Una situazione anche peggiore di quella descritta in Severance. Se non hai fatto altro che lavorare tutto il giorno, di quali argomenti potrai mai parlare a sera? Principalmente di quello che hai fatto, degli scambi coi colleghi, dei torti subiti, di ciò che dovrai fare domani. E a seguirti sono anche le emozioni, le tensioni, l’ansia da prestazione. Il lavoro è persistente. Questo è particolarmente vero per le professioni cognitive – bancari, programmatori, creativi, avvocati, architetti, ricercatori, ecc – per cui il lavoro si configura come continuum e lo sconfinamento di pensieri lavorativi nella vita privata è all’ordine del giorno. In questo modo il lavoro diventa una trappola mentale, un’alienazione totale che s’insinua nelle pieghe del nostro essere e ci mangia dall’interno lasciandoci solo le briciole.

È pur vero che sarebbe troppo facile dare tutta la colpa al lavoro. In questo gioco siamo vittime, sì, ma anche carnefici. Siamo effettivamente scissi, ma come in Severance anche per noi la procedura di scissione è volontaria, almeno in parte. Non possiamo fare a meno di lavorare, questo è chiaro, ma spesso scegliamo volontariamente di dare priorità a questa grande recita alienante per non pensare a noi stessi. È una strategia di evitamento. Ci ubriachiamo di lavoro per dimenticare i nostri dolori e le nostre miserie – Mark sceglie di scindersi dopo la morte di sua moglie – ci consegniamo ad altri per non guardare dentro il nostro abisso interiore, per non affrontare le nostre paure, per non correre rischi. In definitiva, per non prenderci la responsabilità della nostra libertà. E della nostra felicità, anche. Ci rinchiudiamo di proposito nella caverna e rinunciamo ad essere pienamente noi. Scegliamo di essere un ologramma piuttosto che una persona reale.

Così la nostra vita fugge via, tutta regalata a questa roba qua. La nostra attenzione risucchiata da un mondo parallelo sterile e vuoto, mentre lasciamo che nel nostro giardino crescano le erbacce e appassiscano i frutti.

*Nella prima puntata ci viene mostrato che la patente del protagonista è stata rilasciata nell’aprile 2020.

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