Vanishing Point: L’era del gaming liquido


Benché i libri di storia sembrino suggerire l’opposto, le epoche non si chiudono da un giorno all’altro, né si avvicendano attraverso plateali passaggi di testimone. Al netto di eventi dalle proporzioni bibliche come diluvi universali o l’impatto d’un asteroide, il passaggio di consegne tra un ciclo e l’altro prende infatti corpo lentamente, ridisegnando a piccoli passi il background della nostra esistenza mentre siamo troppo impegnati a fare altro. Capita così che, un bel giorno, ci si riscopra proiettati in un contesto che non sappiamo più riconoscere; superati o persino doppiati da un mondo che, invece di girare a vuoto assecondando la nostra illusione di perpetuità, è andato inesorabilmente avanti e senza avvertirci. A ben vedere, di segnali ce ne sarebbero stati tuttavia a bizzeffe, tanti che unendoli tra loro con un ideale tratto di penna, la realtà delle cose e il percorso che l’ha trasfigurata appaiano spaventosamente chiari.

A coloro che hanno interpretato lo stop alla produzione dei Blu-Ray annunciata da Sony come il primo, concreto segno che i supporti fisici siano “ormai destinati a sparire“, andrebbe in tal senso suggerito che la notizia non sia stata altro che il formale atto di morte di un paziente che agonizzava da tempo cui la Pandemia, con annessa impennata dei servizi streaming, ha semplicemente dato il colpo di grazia. Il Day-One dell’Era Liquida non sarebbe pertanto sorto il 26 gennaio 2025 con la indiscrezioni provenute da Tokyo, ma è anzi trascorso da tempo, sopraggiungendo al culmine di un processo sviluppatosi nell’arco di un decennio sotto gli occhi di chiunque avesse il buon senso di non rivolgerli altrove. Mentre gli esperti di statistica snocciolano dati relativi allo “sconvolgente divario” che separa oggigiorno il mercato digitale da quello retail come se si trattasse di una scoperta dell’ultim’ora, noi gamer dovremmo probabilmente far spallucce e guardare avanti. Piuttosto che starcene qui a rimuginare su cosa andrebbe (o andava) fatto per salvare i supporti fisici e, con essi, il concetto di vendita al dettaglio, sarebbe del resto più saggio concentrarci sui mutamenti legati alla diffusione liquida dei contenuti, con tutto ciò che ne deriverà in termini di accessibilità, monetizzazione dei prodotti, alterazione dei diritti dell’acquirente e ingerenze pubblicitarie.

Stabilito che, in tempi maledettamente brevi, servizi come Game Pass, Ubisoft+, EA Play et similia finiranno per rimpiazzare tutti quei dispositivi hardware che, ad oggi, restano l’ultimo baluardo materiale di un panorama che va sciogliendosi come ghiaccio ai poli, non è difficile delineare i contorni di un vicino contesto in cui il videogiocatore, col suo bell’account e carta di credito annessa, si ritrovi a far da pedone su uno scacchiere zeppo di offerte, attraverso le quali ogni produttore cercherà di stabilire con esso un vincolante rapporto di fidelizzazione. In relazione alla logica imperante nel settore delle piattaforme streaming più frequentate, la disponibilità di ogni titolo acquistato – o “preso in prestito”, come ci hanno da poco tenuto a rettificare gli azzeccagarbugli che monitorano i conti delle multinazionali di vertice – non potrà che essere direttamente proporzionale al rinnovo degli abbonamenti e fatalmente vincolato al rapporto tra costi e ricavi. Nel malaugurato caso in cui la permanenza di un dato videogame sulla rete dovesse rivelarsi sconveniente sotto il profilo economico, ogni azienda godrebbe infatti del diritto di staccargli la spina, con tanti, cari saluti al pubblico di riferimento e a tutti gli investimenti effettuati dal singolo acquirente per assicurarsi asset, skin, missioni extra e chissà cos’altro.

A complicare un quadro che, per molti versi assumendo connotati distopici, subentra a questo punto una sfumatura inquietante e cioè che mentre i padri della gaming industry si apprestano a chiudere il cerchio intorno alla rivoluzione streaming, dal versante televisivo e cinematografico arrivino segnali inequivocabilmente allarmanti. Come dimostrato dalla continua corsa ai rincari degli abbonamenti per servizi quali Netflix, Disney+, Prime e persino YouTube, questo modello di business parrebbe avere in effetti imboccato già il viale del tramonto. I motivi del crunch sono diversi e ovviamente da suddividere in più fattori, ma il primo fra essi resta senz’altro l’obbligo di assicurare all’utenza contenuti inediti a ritmo settimanale. Detta politica coinciderebbe, di fatto, con un endemico calo della qualità delle produzioni e, per estensione, a un corrispondente aumento dei debiti accumulati da tutte le Serie TV e i film che hanno fatto flop.

Nel tentativo di arginare un’emorragia di fondi capace di mandare in fumo miliardi di dollari al giorno, scatenare il panico in Borsa ed aggravarsi d’ora in ora per via di una crescente ondata di pirateria, i responsabili di questa folle corsa verso la bancarotta non sono al momento riusciti a trovare una soluzione migliore di sabotare le loro stesse piattaforme inondandole di pubblicità. Il meccanismo è semplice: pur non riuscendo a convincere tutti gli abbonati ad arrotondare per eccesso l’entità delle proprie tariffe mensili per liberarsi di una piaga rea d’aver riportato la TV nel pieno degli anni ’80, i proventi derivati dagli spot della carta igienica, dei cibi surgelati e delle scarpe da ginnastica dovrebbero bastare a tamponare la ferita in attesa di tempi migliori… Peccato solo che, proiezioni di fatturato alla mano, nessuno possa dirsi certo di quando e soprattutto se questi ultimi arriveranno davvero.

Alla luce di tutto ciò, vale senz’altro la pena di porsi un paio di domande e scartare, una volta per tutte, l’errata suggestione che porta molti produttori e altrettanti consumatori di videogame a ritenere che questa riconversione industriale risolverà in un sol colpo tutti i problemi dell’industria del videogioco. In primo luogo, perché la crisi di sistema che sta vivendo quest’ultima non dipende certo e soltanto dai costi legati alla produzione di unità retail e, in seconda istanza, perché è evidente che la fluidificazione dei contenuti comporti il sopraggiungere di problematiche ed effetti collaterali in grado di compromettere persino la stessa fruizione del medium. E cosa andrebbe fatto, allora, per evitare il collasso totale? Oltre a sfuggire a economisti ben più preparati di noi, la risposta al dilemma vanta carattere paradossalmente aleatorio: come molti hanno intuito leggendo tra le righe dei segnali che preannunciavano l’avvento della Nuova Era, i magnati dell’industria avevano scelto già da anni di salire su questo transatlantico. E adesso che sul fianco dei quest’ultimo è apparso il logo del Titanic, è troppo tardi per tornare indietro.





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