Sono due le prospettive da prediligere, tra le molte, nel guardare all’operazione Mps-Mediobanca. La prima riguarda i suoi impatti sull’economia reale, ossia credito e risparmio. La seconda è l’intreccio tra politica e finanza, che solitamente non porta a buone cose.
Il ruolo di Mps nel mercato bancario italiano è andato riducendosi a partire dal 2008. A quel tempo la banca toscana aveva l’8% del mercato dei prestiti (il 10% alle imprese) e a fine 2023 aveva l’1,2% (meno 75 miliardi di euro). La clientela era in gran parte retail (famiglie e piccole imprese).
Mediobanca, nello stesso arco di tempo, ha conservato una quota praticamente costante di mercato creditizio, rivolto però solo a imprese di grandi dimensioni (attorno al 2%), a cui ha aggiunto, proprio a partire dal 2008, un crescente peso nel mercato delle famiglie, passato dallo 0,5% al 2%, grazie all’avvio di CheBanca! (oggi ridenominata Mediobanca premier).
Complessivamente, l’aggregato Mps più Mediobanca (che include CheBanca!), è così passato negli ultimi quindici anni dal 10,5% al 5,2% come peso sul mercato dei prestiti, e dal 10% al 3,4% su quello dei depositi delle famiglie. In quest’ultimo segmento, la componente CheBanca! è andata a conquistare 7,5 miliardi di risparmio che via via la decimazione delle banche di territorio scatenatasi con la grande crisi finanziaria lasciava sul campo (con Mps in prima fila).
Proprio in termini di presidio territoriale, Mps ha perso 13mila dipendenti, mentre il gruppo Mediobanca ne ha guadagnati 1.500, tutti riconducibili alla crescita di CheBanca!.
Da questi numeri e dalle parabole quasi complementari dei due gruppi nel tempo è semplice dedurre che l’operazione di acquisizione non è destinata a produrre effetti positivi sul mercato del credito, almeno non quello delle piccole imprese (che continua a soffrire per la mancanza di un’adeguata offerta), mentre sarà funzionale a consolidare un maggior presidio nel settore del risparmio delle famiglie, con percentuali importanti, sì, ma limitati spazi di crescita, non essendoci fattori sinergici, propedeutici a un eventuale effetto “volano”.
Emerge così la vera preda dell’affare, ossia il salotto “storico” della finanza nazionale rappresentato da Mediobanca, per quanto un po’ impolverato, come già abbondantemente commentato da tanti in questi giorni. Ed è emblematico che sia stato il ministero dell’Economia (Mef), principale azionista di Mps con l’11,7%, a giocare un ruolo chiave nella pianificazione dell’operazione.
Un aspetto centrale dell’offerta pubblica di scambio (Ops), infatti, è il legame tra Mediobanca e Generali, di cui la banca milanese detiene il 13% delle quote. Se l’Ops di Mps avesse successo, il controllo di Mediobanca su Generali non potrebbe non essere ridiscusso ed è per questo che investitori influenti come Caltagirone (7,7%) e Delfin (19,8%) hanno tutto l’interesse a sostenere un’operazione che potrebbe aumentare il loro peso sulla compagnia triestina (e al contempo ostacolare l’operazione Natixis). Il governo italiano, così, rafforzerebbe il controllo su Generali senza neanche passare per l’assemblea degli azionisti.
Il tutto mentre si svilupperanno gli affari Unicredit-Banco Bpm, Unicredit-Commerzbank e Banco Bpm-Anima Holding. Tre importanti operazioni di mercato, dunque, frutto delle ricche casse lasciate nelle banche dalla stagione dei tassi alti, a fronte di un’operazione che di mercato sa poco: il governo sta forzando l’operazione Mps per trovare una chiave di influenza del sistema bancario, a prescindere da chiare strategie di politica economica e in assenza di un vero piano industriale per la banca senese.
Perché è irresistibile, per chi manovra la finanza pubblica, la tentazione di provare a mettere le mani su quella privata. Magari con la scusa di tutelare i risparmi degli italiani.
Chi legge, se non troppo giovane, ricorderà un precedente importante di vent’anni fa esatti. Nel 2005, l’affare Unipol-Bnl costò le dimissioni all’allora governatore della Banca d’Italia (Antonio Fazio, a suo dire concentrato, guarda un po’, a difendere l’italianità del sistema bancario), travolse l’amministratore delegato di Unipol (Giovanni Consorte), portò al processo di un certo numero di faccendieri (“i furbetti del quartierino”) e diede un forte scossone al mondo delle Coop, in testa Unicoop Tirreno, che spregiudicatamente si accingevano a mettere il risparmio dei soci cooperatori al servizio di un’Opa bancaria, ignorandone tutti i rischi del caso.
Allora l’improvvido e quasi comico “abbiamo una banca” di Piero Fassino contribuì a impantanare la campagna elettorale di Romano Prodi contro Silvio Berlusconi, indebolendone la vittoria e favorendone la successiva caduta, solo 18 mesi dopo.
Un governo (debole, di centro-sinistra) pagò il tentativo di alcuni di intrecciare banche e politica. A quattro lustri di distanza un altro governo (che appare più forte, questa volta di destra) non sembra avere più chance di uscirne bene.
Alessandro Messina, di formazione economico-finanziaria, si occupa da 25 anni di banche, Terzo settore e politiche pubbliche per lo sviluppo. È stato direttore generale di Banca Etica. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, “Manager cooperativi” e “Money for nothing” dal quale è stato tratto anche il podcast
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