C’è un «metodo israeliano» nella rissa dei servizi segreti

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C’è un filo che collega le inchieste giudiziarie sulle bande dei dossier con lo scandalo Paragon. Ne parla a un’altra persona l’hacker milanese Samuele Calamucci, indagato per il caso Equalize, in un’intercettazione realizzata dai carabinieri di Varese il 27 settembre 2022 e depositata agli atti dell’inchiesta di Milano: «È il metodo israeliano», dice. Si chiama Ufed (Universal Forensics Extraction Device) ed è una serie di prodotti dell’azienda israeliana Cellebrite che consentono di estrarre dati dai dispositivi mobili sbloccandoli in automatico, un trojan «zero click» cioè che non ha bisogno di alcuna autorizzazione involontaria per entrare in funzione. Israele è uno dei paesi più all’avanguardia nel campo della cybersicurezza: sia a livello governativo sia con le sue aziende private stringe accordi e commercia le sue tecnologie in tutto il mondo, è una presenza fissa e costante del milieu dei servizi segreti e delle agenzie investigative. Infatti, sempre dalle carte dei carabinieri di Varese, emerge che l’8 febbraio del 2023 nella sede di Equalize in via Pattari a Milano si presentano «due israeliani non identificati».

«SONO DISPOSTI a un do ut des», dice, intercettato, il titolare di Equalize Carmine Gallo. La riunione dura un’intera mattinata e si parla di vari argomenti, dal monitoraggio di attacchi degli hacker russi alla possibilità di intercettare fondi e movimenti bancari in Italia e nel resto d’Europa. Calamucci, a nome di tutto il gruppo, mette sul piatto i dati esfiltrabili dalle banche dati strategiche nazionali e si dice disponibile, previo pagamento, a svolgere attività di intelligence. Gli israeliani, dal canto loro, propongono una partnership sostenendo di avere informazioni che potrebbero essere utili sul «traffico illecito di gas iraniano con le aziende italiane». Materiale che potrebbe interessare l’Eni e Stefano Speroni, che fino al 2020 di Eni è stato il capo dell’ufficio legale e che pure è finito indagato nell’inchiesta della procura di Milano sugli accessi abusivi ai database di Stato. È il do ut des di cui parlava Gallo, perché il business di Equalize era tutto costruito all’interno della zona grigia a cavallo tra i servizi segreti e le società private che offrono dossier e spiate a clienti più o meno facoltosi. In gioco non ci sono necessariamente questioni rilevanti, spesso la merce di scambio consiste in informazioni bancarie o poco più, ma tutto dipende sempre da un dettaglio che invece rappresenta un rischio enorme per la sicurezza nazionale: la facilità con cui si può accedere alle banche dati o infilare trojan negli smartphone. Non serve essere 007 per farlo, basta comprare le tecnologie giuste o avere un complice tra le forze dell’ordine. Il problema della debolezza delle casseforti, del resto, informatiche italiane è noto a tutti. Infatti, per cercare di porvi rimedio, nel 2023 l’Italia stringe un accordo con Israele per collaborare proprio sul fronte cyber. È l’8 marzo quando a Roma si incontrano Benjamin Netanyahu e Giorgia Meloni. Sull’agenda sono segnati diversi temi, i due più importanti riguardano l’energia («C’è il gas naturale: ne abbiamo molto e vorrei discutere di come farlo arrivare in Italia per sostenere la vostra crescita economica», è la dichiarazione del premier di Tel Aviv) e proprio la sicurezza informatica. Si parla, ovviamente, di dati. Di come proteggerli, certo, ma anche di come ottenerli. E le tecnologie che possono mettere a disposizione le aziende e le start up israeliane sono il meglio che esiste sul mercato mondiale.

NON TUTTI però sono d’accordo a fare un passo del genere: usare tecnologie made in Israel vuol dire anche condividere con quel paese informazioni e determinati interessi strategici. È una questione politica, cioè di posizionamento dell’Italia sul palcoscenico internazionale. Valutazioni che sembrano banali, ma che hanno scavato un solco incolmabile tra il governo Meloni – soprattutto il sottosegretario Alfredo Mantovano, autorità delegata per la sicurezza pubblica – e il capo dell’agenzia per la cybersecurity nazionale Roberto Baldoni, che proprio alla vigilia della visita romana di Netanyahu rassegna le sue dimissioni. È il primo tassello di un domino che nel giro di un anno e mezzo porta a un vero e proprio terremoto all’interno dell’intelligence. L’ultimo atto, per ora, è da ricercare nell’altra figura apicale che si è dimessa: Elisabetta Belloni, la direttrice del Dis che ha lasciato il suo incarico lo scorso 15 gennaio, sulla scia del caso dell’arresto della giornalista Cecilia Sala in a Teheran e dell’ingegnere iraniano Mohammed Abedini a Milano. I retroscena parlano anche qui di scontri in serie con Mantovano, ma la faccenda si sarebbe risolta con il saggio nulla osta di Meloni alla sua nomina come consigliera diplomatica della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Ma il passato non si dimentica, ed è quasi tutto in cronaca: è il 22 gennaio del 2024 quando Guido Crosetto va a colloquio dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, che sta indagando sul caso dei dossieraggi aperto proprio a seguito di una sua denuncia perché alcune informazioni teoricamente riservate le aveva ritrovate spiattellate sui giornali e che vede come indagati l’ex pm Antonio Laudati e il finanziere Pasquale Striano.

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COME ERANO venute fuori le notizie? Il ministro quasi si sfoga davanti al pm e dice di avere rapporti «non particolarmente buoni» con l’Aise (i servizi segreti esterni) che «in più di un’occasione mancate informazioni che avrebbero potuto anche creare problemi alla sicurezza nazionale». Quando a settembre il verbale dell’incontro viene reso pubblico, ovviamente, succede il finimondo e deve intervenire Mantovano in persona a ribadire la fiducia e il sostegno del governo agli apparati di intelligence. Nel mentre, il governo continua a lavorare sui servizi segreti: tra le pieghe del decreto sicurezza, all’articolo 31 si parla di rendere permanente quanto introdotto in via transitoria dalla legge 7 del 2015, potenziando le attività di intelligence, ad esempio con l’estensione delle condotte di reato scriminabili che possono compiere gli operatori dei servizi di informazione per finalità istituzionali «su autorizzazione del presidente del Consiglio dei ministri». Vuol dire autorizzare pressoché qualsiasi mezzo per effettuare le loro indagini solo perché così ha deciso palazzo Chigi.

E ARRIVIAMO a oggi, con la procura di Roma che indaga sui servizi segreti per le pratiche della cosiddetta Squadra Fiore, un’altra banda di presunti trafficanti di dossier e segreti. Si tratterebbe di una società parallela a Equalize, con alcuni agenti dei servizi segreti iscritti nel registro degli indagati dall’aggiunto Stefano Pesci.



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