A mezzanotte sai che l’Occidente non ci penserà

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Nel 1947, il Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago ideò il Doomsday Clock, un orologio simbolico che misura la vicinanza dell’umanità alla propria autodistruzione. Inizialmente concepito per segnalare il rischio di una guerra nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica, nel tempo il Doomsday Clock ha ampliato il suo ticchettio includendo una gamma più ampia di potenziali “catastrofi” per il genere umano.

Oggi, nel 2025, le lancette segnano 89 secondi alla mezzanotte – “l’ora più buia” – il punto più vicino all’apocalisse mai registrato. Le ragioni del countdown sono abbastanza evidenti: guerre, instabilità politica, crisi ambientali e lo sviluppo di tecnologie che non si capisce ancora bene quanto è quale impatto avranno sulle democrazie. Secondo la Armed Conflict Location & Event Data (ACLED), i conflitti globali sono raddoppiati negli ultimi cinque anni, con un aumento del 25% della violenza politica solo nel 2024: una persona su otto nel mondo vivrebbe sotto la minaccia della guerra.

I conflitti dimenticati dai media

Sebbene conflitti come quello scoppiato tra Israele e Hamas a Gaza dopo la strage del 7 ottobre, o la guerra tra Mosca e Kiev provocata dall’invasione russa del Donbass (e prima della Crimea), siano protagonisti quasi assoluti dell’attenzione mediatica, gran parte delle crisi che attualmente determinano lo scenario globale rimangono nell’ombra. Eppure, il conflitto tra esercito e forze paramilitari (RSF) in Sudan ha già causato migliaia di morti anche tra i civili e milioni di sfollati. L’Etiopia è stata squassata dalle violenze nel Tigray, mentre la disputa con la Somalia su Somaliland per adesso è stata messa sotto il tappeto salvando almeno apparentemente il quadro della stabilità regionale.

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Il conflitto di lunga data tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda si è riacceso quando la città di Goma è stata catturata dal gruppo ribelle M23: secondo il Guardian, negli ultimi giorni, centinaia di donne sarebbero state stuprate o uccise. Ma si combatte anche per prendere il controllo del coltan, usato per produrre i microchip degli smartphone e di altri dispositivi digitali, e di altre risorse minerarie.

L’Afghanistan dopo il disastroso ritiro degli Stati Uniti, iniziato da Obama e concluso da Biden, è precipitato nel caos, con i talebani che hanno ripreso l’apartheid contro le donne, mentre cresce l’influenza di gruppi ancora più estremisti. Le bande armate imperversano ad Haiti dopo l’assassinio del presidente Moïse nel 2021, mentre la missione di supporto guidata dal Kenya fatica a riportare l’ordine in questo ennesimo “stato fallito”, dove secondo l’UNICEF “i corpi dei bambini sono campi di battaglia”.

Lo Yemen, messo a ferro e fuoco dalla guerra civile scatenata dagli Houthi spalleggiati da Teheran, affronta da anni una grave carestia, mentre in Siria la caduta di Assad non ha sanato le profonde divisioni interne e la situazione umanitaria resta critica. In Myanmar, la resistenza armata contro la giunta militare che ha deposto quattro anni fa Aung San Suu Kyi ha portato a una violenta repressione e alla violazioni dei diritti umani. Anche il confronto tra Cina e Taiwan o tra Iran-USA-Israele potrebbe risolversi in escalation destinate ad alimentare questa lista purtroppo sempre più lunga.

Occidente: spettatore o protagonista?

Ormai trovare in giro qualcuno che parli ancora di esportazione della democrazia è come avere un miraggio nel deserto. Gli Stati Uniti, il “poliziotto globale” emerso dopo la vittoria nella Guerra Fredda, e le guerre successive all’11 Settembre, si sono riscoperti protezionisti e isolazionisti, una postura che non appartiene solo a Trump ma allo stato americano fin dalle origini. Le recenti tensioni sulla percentuale da destinare alla spesa militare tra i Paesi NATO o l’atteggiamento del presidente USA nei confronti dei partner europei sull’Ucraina mostrano quant’è forte questa tradizione che sogna gli Stati Uniti rinchiusi nel loro splendido isolamento. Anche le provocazioni di Trump sulla Groenlandia o la questione dei dazi contro Canada e Messico rientrano in una visione che punta più che altro a mettere sotto controllo il “cortile di casa”.

Con un’America che non sembra più disposta a pagare i costi della sicurezza internazionale, e un’Europa che fatica a definire una strategia alternativa, il rischio per l’Occidente è quello di abdicare a qualsiasi forma di leadership, lasciando spazio a nuovi attori globali, dai BRICS al “Global South“, che però, per adesso, sembrano compattarsi solo grazie a una visione antioccidentale, anche in questo caso senza offrire vere alternative. Il problema è che da Oriente a Occidente, tra Nord e Sud, sembra mancare una politica coerente e strutturata nei confronti delle crisi internazionali.

Che fare? Dovremo decidere se limitarci a osservare l’avanzare della mezzanotte o essere parte della soluzione. Come ricordava il compianto Christopher Hitchens parlando del boia di Srebrenica, Ratko Mladic: “Ogni volta che accadono eventi simili, ci viene ricordata la famosa frase di John Quincy Adams sul rischio per gli Stati Uniti di andare ‘alla ricerca di mostri da distruggere’ all’estero. Ma il carattere mostruoso di Mladic non ha mai avuto bisogno di esagerazioni. Ancora oggi, molti non comprendono appieno quanto caos, sofferenza e miseria abbia inflitto deliberatamente”.



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