JESI – Un incontro profondo tra arte, storia e tragedia si realizza con Lovers Eyes, la mostra monografica di Simona Bramati, a cura di Simona Cardinali, che inaugurerà il 14 febbraio alle ore 18 presso la Sala Betto Tesei di Palazzo Pianetti a Jesi. Il titolo, evocativo e denso di significati, rimanda a una tradizione settecentesca inglese, quando gli amanti si scambiavano piccoli ritratti di occhi dipinti come simboli di amore eterno e segreto. Il percorso espositivo si articola in una successione ritmica di sguardi, interrotta solo dalla figura di una donna i cui capelli sono trascinati da corvi neri, un richiamo visivo alla fine tragica della passione. Il tema del fuoco, che tutto brucia e trasforma in cenere, suggerisce un ciclo eterno di distruzione e rinascita. Ad arricchire la mostra vi è un reperto archeologico, un uovo cosmico esposto per la prima volta dai depositi dei musei di Jesi. Questo enigmatico manufatto, ancora in corso di studio, contiene al suo interno una statua di due amanti abbracciati, un’immagine che riecheggia il mito di Elena di Sparta: figura di bellezza e amore, ma anche di guerra e distruzione.
Simona è reduce dai successi delle mostre “Grotteschi Araberschi in Nero” alla Libreria Gonnelli di Firenze, “Vampiri” al Mueso Civico di Crema, “Soggetto/Oggetto – La Nuova Figurazione” alla LaranarossaGALLERY di Modena passando per il Premio Marche, solo per citarne alcuni.
Lovers Eyes” è un progetto che mescola bellezza e tragedia. Come nasce questa esposizione?
«Un giorno trovai per caso su internet un video scioccante di una bambina di 13 anni brutalmente lapidata dal padre, dal fratello e dai loro amici per essersi innamorata di un ragazzo di un’altra fede. Era il 2011. Guardando quelle immagini, presi coscienza di una realtà lontana dalla mia cultura e iniziai a riflettere su come rappresentare questa ingiustizia. Il mio lavoro artistico si concentra sulla violenza contro le donne, non solo nel mondo islamico, ma a livello globale. Oltre alle grandi tele che ritraggono corpi femminili abusati, ho creato una serie di piccoli dipinti raffiguranti un occhio femminile per ogni nazione del mondo (oltre 200), un progetto ancora in corso per la sua complessità. Sei occhi sono invece dipinti su urne cinerarie bianche, con all’interno una pietra bianca su un cuscino rosso, simbolo della lapidazione, del sangue e della passione. Il numero 6, nella numerologia araba, rappresenta il corpo. Ho scelto di dipingere un occhio per ogni nazione per mostrare che la violenza sulle donne è un problema universale. Con questo lavoro cerco di indagare le radici della violenza, consapevole che odio e amore sono entrambi parte della natura umana. L’indagine sul corpo femminile è il filo conduttore della mia ricerca artistica».
Perché la scelta del bianco come sfondo per i ritratti oculari?
«Come già scritto la scelta del bianco è strettamente collegata alla pratica insulsa della lapidazione. Le Donne che vengono condannate a questa brutale fine vengono sotterrate fino ai gomiti, con tanto di avambraccia e mani bloccate nella terra insieme alle gambe e bacino. La Donna viene incappucciata con un lenzuolo bianco candido che viene anch’esso sotterrato nella parte dei lembi per fermarlo insieme al resto del corpo. Poi in un’enfasi di gruppo si parte con il lancio delle pietre che non devono essere né troppo piccole, né troppo grandi, vi lascio immaginare perché… Il gusto di uccidere lentamente è parte integrante del “rito”. Lentamente il lenzuolo si macchia di rosso qua e la, mentre la Donna si dimena e perisce ai colpi che piano piano si portano via l’ultimo afflato di esistenza di quel corpo martoriato».
Nella mostra ci sono elementi archeologici e simboli mitologici. Come si relazionano con la tua opera?
«Non vorrei svelare troppo perché il prezioso reperto archeologico che verrà mostrato il 14 febbraio è ancora in fase di studio, posso solo dire che il tema centrale è quello dell’amore tra esseri umani. La mia mostra è l’antitesi perfetta di un risvolto macabro e triste che ahimé riempie con cadenza troppo frequente le cronache italiane e non solo. Ciò che dovrebbe essere la parte idilliaca per eccellenza della nostra esistenza viene sostituito con numerose emozioni negative che hanno troppo spesso il proprio epilogo nei femminicidi».
Quale messaggio speri che il pubblico porti con sé dopo aver visitato Lovers Eyes?
«ll mio lavoro è un lavoro di denuncia che grida con lo sguardo silenzioso dell’occhio della vittima a cui le è stata negata la parola per sempre. Queste Donne continuano a guardarci in un gioco di rimandi perpetui e ci permettono di porci delle domande, di non rimanere indifferenti, alla presa di coscienza del fallimento, di un’umanità che deraglia nel vortice del degrado intellettuale e morale, nel vilipendio conclamato, nel turbamento del disagio. Aprire gli occhi sarebbe dovuto».
Dalla tua ultima mostra personale a Jesi sono passati 16 anni, come si è evoluto da allora il tuo lavoro e perché?
«La mia natura irrequieta non mi permette continuità nel lavoro. Quando percorro una strada, presto temo la ripetizione e cambio direzione, sperimentando liberamente, anche a mio discapito. Ma sono nata libera e voglio rimanere tale, narrando storie attraverso il mio figurativo, chiaro e diretto. L’evoluzione è un cammino incerto fatto di incontri, perdite e vittorie che arricchiscono il mio lavoro. Il precario fa da spalla all’incedere del passo ed è in quel momento che nasce l’ispirazione più solenne come quella che ti permette di immortalare una Regina. Vivo il presente come un dono, senza parlare dei progetti futuri, con stupore e gratitudine per il privilegio di essere un’artista. Il mio ritorno a Jesi, 16 anni dopo Lachesi, La filatrice del destino, è emozionante, grazie a Simona Cardinali e alla Pinacoteca di Palazzo Pianetti, che ha inserito la mia arte nella collezione permanente. Un pensiero speciale va a Loretta Mozzoni, che ha creduto in me fin dall’inizio e che porterò sempre nel cuore».
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